Una lampada si accende al terzo piano, illuminando la finestra che fa da angolo all’edificio. La luce oscilla, in un primo momento; poi si stabilizza, flebile e intima, e annuncia a Takahiro che il suo lavoro è concluso. La sua serata è terminata. Senza Iwaizumi e Oikawa non ha motivo di restare in giro fino al mattino, e onestamente? Non ne ha nemmeno voglia.
Quindi non gli resta che tornare a casa.
Non che l’idea lo entusiasmi. A casa lo aspettano solo uno schermo troppo piccolo per ospitare tutte le sue fantasie, un sonno disturbato dalla preoccupazione per i suoi migliori amici, e una colazione silenziosa insieme a sua madre, interrotta da uno sguardo comprensivo e un dolce: «Figlio mio, vedrai che la prossima volta andrà meglio».
La mattina è sempre il momento peggiore. È lì che sua madre attiva i suoi superpoteri e scova dentro di lui il nocciolo della sua malinconia, ricordandogli con estrema delicatezza che non deve avere fretta, che può prendersi tutto il tempo che gli serve, che ha ancora spazio per crescere in sé stesso.
Takahiro odia quel superpotere. Odia sentirsi consolato. E poi odia sé stesso perché non riesce mai ad accontentarsi.
Dovrebbe sentirsi fortunato, lo sa. Sua madre è troppo buona con lui, sempre pronta ad ascoltarlo e a capirlo, anche quando Takahiro non riesce a capire sé stesso. Ci sono passati infinite volte: a otto anni, quando i capelli lunghi gli pizzicavano le spalle e Takahiro non vedeva l’ora di strapparli a pugni; a tredici anni, quando la gonna della divisa scolastica lasciava nude le sue ginocchia sempre troppo gracili; e poi a diciassette anni, quando il mero suono del suo vecchio nome lo strappava fuori da sé stesso. Sua madre è sempre stata lì per lui, a rasargli i capelli, a cucirgli nuovi pantaloni, ad aiutarlo a scegliere un nome che calzasse a pennello.
Anche ora, a ventisei—no, ventisette anni, sua madre continua a essere il suo pilastro, colei che sovrasta le voci nella sua testa e gli ricorda che anche Takahiro, prima o poi, potrà assaggiare l’affetto che lega Oikawa e Iwaizumi. E ha ragione! A mente lucida, Takahiro sa che sua madre ha ragione, che un giorno troverà qualcuno che gli piace, che gli piace davvero. Ma nel frattempo che ci può fare? Attendere non è facile come sembra. E la verità è che Takahiro non ha più voglia di consolazione, di comprensione, di una prossima volta. No, ora vuole soddisfazione. Calore umano sotto le proprie mani. Quel piacere che è abituato a provare da solo finalmente condiviso con qualcuno.
Forse può tornare al club e unirsi all’orgia? Sarebbe pur sempre un’esperienza…
«Ehi, tu.»
Takahiro si volta di scatto alla propria destra. Mattsun lo sta guardando, il braccio ancora posato sul finestrino abbassato, la testa appena sporta verso l’esterno della macchina. Ad ogni respiro, davanti alle sue labbra si forma una gelida nuvola bianca che gli offusca per un attimo i lineamenti.
E forse è meglio così.
Schiarendosi la voce, Takahiro si avvicina di un passo e si appoggia con il palmo sul tetto della macchina. Poi si sente ridicolo e si rinfila la mano in tasca.
«Fa freddino» dice, come un idiota.
Mattsun solleva un sopracciglio in un invito. «Vieni a scaldarti con me.»
Uhm.
«Come, scusa?»
«In macchina» chiarisce Mattsun. «Dove c’è il riscaldamento, sai?»
Takahiro gli lancia un’occhiata piatta per nascondere la tempesta di nervi che gli tormenta lo stomaco. «L’hai fatto apposta.»
«Forse un pochino. Tipo, così.» Sollevando la mano, Mattsun avvicina pollice e indice per indicargli precisamente quanto lo stia prendendo in giro. «Però mi sto davvero congelando. Sali?»
Takahiro non dovrebbe. Non dovrebbe accettare, non dovrebbe salire, non dovrebbe restare a fissare le sue lunghe dita, le vene grosse che sporgono dal suo dorso, il leggero sprazzo di peli scuri che gli colorano il polso… Cristo. Come si fa a distogliere lo sguardo?
Passandosi un dito sotto al naso, Takahiro si stringe nelle spalle. «Non so se è il caso.»
«Non ti fidi?»
No che non si fida.
Non si fida di sé stesso.
«Non voglio disturbare oltre» si limita a dire.
«Non disturbi» dice Mattsun. «E poi ho promesso a sua altezza reale che ti avrei riportato a casa. Non vorrai farmi infrangere una promessa, spero.»
Takahiro ha di fronte un estraneo. Un estraneo che conosce con un’intimità al limite dello stalking, ma pur sempre un estraneo. E il fatto che sia amico di Oikawa non migliora la situazione. Anzi. Forse la peggiora solo. Dovrebbe davvero trovare una scusa per tornarsene a casa da solo, dimenticare l’incontro di stasera e unfolloware Mattsun su Twitter…
Oppure potrebbe fare una pazzia.
Solo per una volta. Solo per una notte.
«Non ho voglia di tornare a casa» dice ad alta voce.
Mattsun lo studia con un sorriso, le labbra arricciate e invitanti. «E che fretta c’è.»
Pochi attimi più tardi Takahiro siede dentro la macchina, le mani allungate all’avanti e poggiate sulle ventole del riscaldamento. L’aria è ancora fredda, ma non importa. Takahiro ha solo bisogno di una distrazione.
Perché la serata ha appena preso una piega surreale.
«Hai qualche posticino in mente?» chiede Mattsun, accendendo il motore.
Takahiro ha la gola troppo secca per parlare, così si limita a scuotere la testa.
«Poco male. Ci facciamo un giro.»
La macchina parte in silenzio. Non è pesante come quando c’erano Oikawa, Iwaizumi e il bagaglio emotivo che si portano dietro, ma la tensione è lì, vivida e vibrante. Si sente nel calore che emana Mattsun al volante, nella domanda sospesa che rimane taciuta tra di loro.
Takahiro ha bisogno di dire qualcosa, qualsiasi cosa, purché la discussione non viri su quell’argomento.
Così si schiarisce la gola. «Come hai conosciuto Oikawa?»
«All’università» dice Mattsun, allungandosi verso il cambio con languida sicurezza. «Anche se avevamo solo qualche lezione in comune, niente di che. È di recente che ci siamo avvicinati, se sai cosa intendo.» Gli lancia un’occhiata più esplicita di un occhiolino, ma Takahiro c’è già cascato una volta e ora non attacca più.
«Non so proprio cosa intendi.»
«Va bene, va bene» dice Mattsun con una risata, agitando la matassa di riccioli scuri che ha sul capo. «In realtà non è niente di che. È stato tipo un anno fa. Oikawa aveva bisogno di un social media manager, sapeva che lavoro nel settore e mi ha chiesto aiuto.»
Takahiro non sa se ridere o piangere. «Lavori… nel settore?» ripete, incredulo.
«È un settore molto vasto, non lo sai?» dice Mattsun, e oh, quel tono non preannuncia niente di buono. «Eppure mi sembri molto esperto.»
Takahiro volge lo sguardo fuori dal finestrino e considera l’idea di gettarsi fuori dalla macchina in corsa. E non è per niente una cattiva idea. Mancano venti, quindici metri al prossimo tombino delle fognature, e Takahiro potrebbe tranquillamente tuffarcisi di testa, così, per mostrare i risultati dei tre mesi e mezzo che l’anno scorso ha passato ad allenarsi in piscina. L’essere ripescato dalla melma della città con una pantegana in bocca sarebbe comunque meno imbarazzante di quella maledetta conversazione.
Anche perché ora la parola spetta a Takahiro.
E che altro gli resta da fare?
«Okay» dice, anche se niente, proprio niente è okay. «Te lo devo dire.»
«Dimmi pure.»
«Uhm.» Takahiro si strofina le mani sul viso. Il freddo di poco prima è scomparso, sostituito dal calore che ora gli scortica le guance, le orecchie, il petto e lo stomaco. Per non parlare di quanto stia sudando. Potrebbe infradiciare un asciugamano solo pulendosi le mani. Il che è oggettivamente disgustoso—quasi quanto la sua voce quando, di getto, vomita: «Hovistoituoivideo», le parole tutte accavallate e senza fiato, l’ultima goccia di dignità sputata a terra tra una sillaba e l’altra.
Mattsun si volta appena, confuso. «Quali video?»
«I tuoi. Uhm, su Twitter. Quelli dove, sai…»
«Sì?»
Takahiro serra le labbra in una linea rigida perché adesso la vede, la vede!, l’ombra di un sorriso sulla bocca di Mattsun. Perché Mattsun lo sta facendo apposta. Lo sta prendendo in giro. Di nuovo!
«Ti stai divertendo» lo accusa Takahiro.
Il bastardo osa persino ridere. «Scusami» dice, per niente dispiaciuto. «È solo piuttosto raro incontrare qualcuno che mi riconosce da Twitter.»
Oltre all’eco della sua risata, la voce di Mattsun è tranquilla come lo era poco prima quando parlava della sua università. Il che è anche peggio. Perché ora Takahiro si sente ancora più scemo.
«Non… ti mette in imbarazzo?»
«Cosa?» chiede Mattsun. «Masturbarmi su internet? O che tu mi abbia visto masturbarmi su internet?»
«Senti, ma la smetti?» borbotta Takahiro. Non ha bisogno di sentirsi prendere in giro, grazie tante. Anche perché il tombino ormai l’hanno superato e Takahiro non riesce a trovarne un altro in cui gettarsi. «La mia era una domanda seria. Onesta. A differenza tua.»
«Anche la mia è una domanda seria. Serissima.»
«Sei un pessimo bugiardo.»
«Vero?» dice Mattsun, sorridendo sghembo. «Fortuna che non mi pagano per la mia recitazione, altrimenti…»
E va bene, bisogna ammetterlo. Questo Mattsun è un tantino divertente. Abbastanza da strappargli due sbuffi dal naso, cioè l’unica risata che Takahiro è disposto a concedergli mentre Mattsun continua a punzecchiarlo in quel modo. Ma come si permette? Non si rende conto della serietà della situazione? Takahiro ha le guance in fiamme e le budella annodate dallo stress. Ed è tutta colpa… di chi?
Di Mattsun che gli parla con tanta nonchalance? O di Takahiro stesso che non riesce a smettere di pensare a quante volte l’ha visto nudo, a cosce spalancate, con le dita sull’erezione?
«Ferma la macchina.»
Mattsun gli lancia un’occhiata allarmata. «Tutto okay?»
«Sì,» dice Takahiro «ho solo bisogno di buttarmi da quel ponte.»
Mattsun non ha nessun diritto di ridere delle sue disgrazie, eppure lo fa lo stesso, come se quella conversazione fosse divertente. E non lo è proprio per niente. Takahiro quasi si pente di non essersi lasciato assassinare nel parco, dal suo serial killer invisibile. Sarebbe stato di certo meno doloroso di—di—di questo: l’uomo dei suoi sogni, letteralmente l’uomo che compare di continuo nei suoi sogni, che ride di lui.
«Mi sento male» mormora senza accorgersene.
«Se hai bisogno, possiamo fermarci.»
«Non in quel senso.»
«Oh.»
La macchina rallenta lo stesso. Mattsun sterza verso sinistra e si infila in una lunga strada che durante il giorno dev’essere super caotica, ma che a quest’ora della notte è popolata solo da loro due, una macchina nell’altra corsia e i segnali illuminati che ne tracciano il percorso. Takahiro li conta in silenzio. Uno, due, tre, quattro…
«Non devi preoccuparti, sai» dice Mattsun appena superato il quinto cartello. «Se posto video porno su internet è perché mi aspetto che qualcuno li veda. Altrimenti li terrei nel telefono, no?»
«Immagino di sì, ma…» Takahiro si stringe nelle spalle. «Non ti mette a disagio parlare con qualcuno che li ha visti?»
«Non può essere peggio di parlare con mia madre.»
Takahiro spalanca gli occhi e si volta verso di lui. «Tua madre? Li ha visti?»
«Fosse solo quello. Una volta mi è entrata in casa mentre filmavo una live. E vuoi sapere la parte peggiore?» Si lascia scuotere da una risata. «Quello è il mio video più popolare.»
«Mi stai mentendo. Dimmi che mi stai mentendo.»
«Eh, magari.»
Takahiro rabbrividisce dall’imbarazzo di seconda mano. L’idea che sua madre possa beccarlo con un dildo tra le gambe è la causa principale dei suoi mal di stomaco e anche il motivo per cui Takahiro non l’ha ancora battezzato, il suo dildo. Il poveretto è seppellito da mesi nella sua confezione, avvolto da una busta colorata, nascosta dentro una scatola da scarpe, a sua volta infilata sotto le altre scatole da scarpe nell’angolo più buio del suo armadio, dove probabilmente passerà il resto dei suoi giorni. Per prima cosa, perché Takahiro non ha mai un attimo libero in casa. E per seconda, perché Mattsun l’ha appena traumatizzato.
«Io sarei morto.»
«Non è stato uno dei miei momenti migliori, no» dice Mattsun, ridendo. «Ma ecco, fortunatamente tu non sei mia madre e i miei video puoi guardarteli quando preferisci. Hai la mia benedizione! Goditeli per bene.» Voltandosi verso di lui, Mattsun solleva un sopracciglio folto. «Perché te li godi, vero?»
Cristo, ma dov’è un tombino quando serve?
«Questa domanda è profondamente inappropriata.»
«E spero che la risposta lo sia anche di più.»
Takahiro si sente arrossire fino alle orecchie, ma questa volta non riesce a trattenere una risata, spezzata a metà tra i nervi e il divertimento.
Mattsun gliela sta rendendo più facile del previsto. Nonostante le piccole prese in giro, non c’è scherno nella sua voce; nemmeno le sue risate sono davvero dirette a Takahiro. Anzi. Il fatto che Takahiro abbia visto i suoi video tanto spesso da riconoscerlo in un parco semi-illuminato per Mattsun sembra essere una lusinga, non qualcosa da tenere nascosto, da mantenere segreto, da sotterrare sotto strati su strati di vergogna. Ed è difficile sentirsi umiliato davanti a una così totale assenza di giudizio.
L’imbarazzo però resta. Che ci può fare? Takahiro non è abituato a parlare dei suoi incontri unilaterali notturni. Fa fatica a spiegarsi persino con Iwaizumi, il suo migliore amico, che lo conosce abbastanza bene da non trarre conclusioni affrettate su di lui. E figuriamoci discuterne con Mattsun, l’oggetto stesso delle sue fantasie! Ora in carne e d’ossa davanti a lui! Capace di parlare senza gemere ogni sillaba!
La cosa non dovrebbe sorprenderlo così tanto, ma sono mesi che Takahiro lo segue su Twitter, che guarda i suoi video e li salva tra i preferiti e li guarda di nuovo, e di nuovo, e di nuovo, fino ad averne abbastanza. Non ne ha mai abbastanza, ed è proprio quello il problema.
Per Takahiro, Mattsun è sempre stato un ammasso di sogni stipati in un piccolo schermo, in un mondo fittizio, intoccabile, irraggiungibile. La fantasia di trovarselo davanti è sempre stata solo quello—una fantasia; una delle tante fantasie, come l’assassino del parco e il tombino dell’infamia. Non è mai stato realizzabile. Non ha mai voluto essere realizzabile. Doveva essere una semplice distrazione creata per rendere la sua routine un po’ meno noiosa, un po’ meno solitaria, un po’ meno incompleta. E se poi la cosa gli è sfuggita di mano, andando a riempire ogni momento libero della sua mente, quello è un problema per un altro giorno. Ora ci sono questioni più impellenti.
Ad esempio, Mattsun che è diventato una realtà.
Una realtà che sta flirtando con lui, proprio con Takahiro, spingendolo a rivelare tutto ciò che non ha mai permesso uscisse fuori dal suo Android ammaccato. E lo fa con tanta tranquillità da metterlo a suo agio, come se non ci fosse nulla di male a desiderare qualcuno con cui condividere la propria sessualità. Come se Takahiro non fosse l’unico al mondo ad averne così tanto bisogno.
«Peccato, però» dice Mattsun, ticchettando con i pollici sul volante.
Takahiro cerca di non fissare le sue mani troppo a lungo. «Cosa?»
«Tu hai visto i miei video, ma io non ho visto i tuoi.»
Oh, Cristo. «Io, uhm, io non faccio video.»
«No?» Mattsun gli lancia un’occhiata di sbieco e studia per un attimo il suo viso, anche se in quel buio non si vede praticamente niente. «Dovresti.»
«Preferisco restare a guardare» borbotta Takahiro.
E non è la cosa più sbagliata da dire? Forse sì, forse no. Takahiro non ne è certo, perché subito dopo Mattsun emette un breve fischio compiaciuto, seguito da un interessato: «Ci possiamo lavorare».
Merda, ma perché fa così caldo? Takahiro non si sente così febbricitante nemmeno dopo un’ora e mezza di kickboxing. Il che la dice lunga, perché un’ora e mezza di kickboxing è capace di farlo diventare tanto bordeaux da preoccupare chi gli sta attorno. Ma in questo momento una doccia fredda non basterebbe a calmarlo, non davanti a una proposta tanto chiara. Non davanti alla possibilità di accettarla.
Takahiro si appoggia con la guancia contro il finestrino gelido.
Se solo fosse così facile…
«Mi pare di capire che sia il tuo compleanno?» dice Mattsun.
«Già.»
Mattsun abbassa lo sguardo sul cruscotto, dove l’orologio indica l’una passata. «Ieri o oggi?»
«Oggi.»
«E quanti anni sono?»
«Ventisette.»
«Oh, sei più grande.»
«Non si direbbe proprio» dice Takahiro, lasciando scivolare lo sguardo su Mattsun. Non riesce a trattenersi. Takahiro ha studiato i video di Mattsun tanto a lungo e con tanta attenzione da sapere che tra di loro non dev’esserci troppa differenza in muscoli e altezza, ma il suo schermo non l’ha preparato per il modo in cui Mattsun siede sul suo sedile con sicurezza, con le cosce allargate, una mano sul volante e l’altra pigramente poggiata al cambio, occupando tutto lo spazio che riesce a prendersi.
Quella non è una questione di dimensioni. È solo il calmo atteggiamento di qualcuno che non ha timore di farsi notare e si lascia il permesso di attirare l’attenzione, anche nel privato di quel rottame di macchina.
Ed è sexy da morire, cazzo.
«Smettila, dai» dice Mattsun, spostando la mano dal cambio e passandosela tra i riccioli scuri. «Tutti questi complimenti cominciano a darmi alla testa.»
«Non ho detto niente» dice Takahiro. Perché non ha detto niente, vero? Non ha parlato ad alta voce. Cristo, qualcuno gli dica che non ha parlato ad alta voce.
Mattsun ride e allunga la mano verso Takahiro. «È il modo in cui mi guardi» dice, poggiando il palmo aperto sulla sua coscia, appena sopra il suo ginocchio. Non è insistente, non è lascivo. È solo… un invito. Sfrontato, ma pur sempre un invito. «Non me ne sto lamentando, tra parentesi. Dico solo, non distrarmi mentre sto al volante.»
«Guarda che ti stai distraendo da solo.»
«Touché» dice Mattsun, ma lascia la mano lì dov’è, stringendo piano le dita.
Il calore che emana trapassa i jeans di Takahiro e si imprime inesorabilmente contro la sua pelle, lasciandosi dietro una scia tanto intensa da sentirla pulsare anche quando Mattsun si stacca per cambiare marcia.
Sperando di non farsi notare, Takahiro si copre il punto ferito con il palmo e cerca di impedire a quella carezza di scomparire troppo in fretta.
È terribile. Assolutamente terribile. Il tocco distratto di uno sconosciuto, per quanto attraente possa essere, non dovrebbe stravolgerlo così tanto. Anzi. Non l’ha mai stravolto così tanto. Takahiro è abituato a fuggire da chiunque non sia Iwaizumi, Oikawa o sua madre, a non farsi toccare da nessuno che non conosca intimamente abbastanza da avere certezze, da sentirsi al sicuro, da sapere che un abbraccio non svanirà il giorno dopo, dimenticato e dimenticabile.
Questo Mattsun è la più assoluta delle incertezze. Un estraneo che vive in un mondo a cui Takahiro sa di non poter accedere. Eppure qualcosa gli dice che, se anche non si parlassero mai più, una serata con lui sarebbe tutto tranne che facile da dimenticare. E non sta nemmeno pensando a una scopata. Solo… alla pace con cui Mattsun abita il suo corpo. Al modo in cui si è scoperto lentamente, tra una provocazione e l’altra, per conoscere Takahiro e lasciarsi conoscere a sua volta.
C’è una libertà nella sua sessualità così aperta ed esplicita che Takahiro invidia fino alle lacrime e vorrebbe rendere propria, almeno per sciogliere un po’ di quel disagio che ha sempre sentito verso di sé, verso l’idea di avere bisogni e fantasie tanto vivide, anche se di esperienza non ne ha. E non può essere un caso che una sua breve pressione sulla coscia gli abbia fuso il nodo di stress allo stomaco, tanto da renderlo quasi sopportabile.
Quasi. Perché una serata di ansia e alcol non fa bene né a lui né alla sua vescica.
«Mi sa che devo pisciare» dice distrattamente.
«Proprio qui?»
«Certo» dice Takahiro, alzando gli occhi al cielo. «Hai una bottiglia?»
Per un attimo, Mattsun abbassa lo sguardo tra le gambe di Takahiro mentre con la lingua si inumidisce il labbro inferiore. «Ci serve per forza?»
«Cosa.»
«La bottiglia.»
«No!» esclama Takahiro.
«No che non ci serve?»
«No che devi smetterla!» Takahiro gli dà uno schiaffo sul braccio. Si sente il viso di nuovo in fiamme per quel momento di esitazione che l’ha lasciato scoperto agli attacchi di Mattsun e, merda, anche vagamente incuriosito. «Cristo, ma come ti vengono in mente ‘ste cose.»
Mattsun si stringe nelle spalle, ridendo. «Hai iniziato tu.»
«Non ci provare! Hai fatto tutto da solo.» E per fortuna. Almeno questa volta sarà interamente colpa di Mattsun se Takahiro si ritroverà con un nuovo kink irrealizzabile.
Il bastardo non ha proprio pietà per un povero vergine arrapato.
«Visto che hai bocciato la proposta numero uno,» dice Mattsun con un sospiro esagerato «forse posso offrire un’opzione alternativa.»
Di certo la seconda non può essere peggio della prima, no?
No?
«Sentiamo» dice Takahiro, dubbioso.
«Casa mia è a pochi minuti da qui.»
«Oh, molto conveniente.»
«Terribilmente» dice Mattsun, aprendosi in quel suo sorriso storto.
Takahiro scuote il capo e ride, in una risata genuina e spontanea che gli rende un po’ più facile prendere un respiro profondo, ingoiare il nervosismo e recitare: «Portami a casa, dunque, oh garzone».
Mattsun piega il capo in un inchino. «Come sua signoria desidera.»
*
Dall’esterno, il palazzo in cui abita Mattsun non è tanto diverso da quello di Iwaizumi. I tre piani dipinti di recente sono impilati l’uno sull’altro con calcolata precisione, ma la simmetria dei piccoli balconi e delle finestre buie intensifica solo la sensazione di sovraffollamento tipica degli edifici di città, disegnati per stipare al loro interno stanze di troppo da affittare a prezzi esorbitanti. Takahiro lo sa bene. È da un anno che cerca di lasciare la casa dei suoi, ma anche uno sgabuzzino con bagno esterno al momento è al di fuori del suo budget.
Mattsun, invece, dev’essere abituato a vivere da solo. Appena superata la soglia dell’ingresso si ferma davanti alla parete di cassette in metallo per controllare la sua posta, tira fuori quelle che paiono essere bollette da pagare e se le infila in tasca senza nemmeno un’occhiata.
«Saliamo al terzo» dice, indicando la rampa di scale con il mento. «Niente ascensore, purtroppo.»
Takahiro si stringe nelle spalle. «Sopravviveremo anche senza.»
Al secondo piano si pente di averlo detto. Non perché le scale siano faticose, ci mancherebbe; le ore che passa in palestra non servono solo a tenergli distratta la mente, grazie tante. Ma forse è il caso di inserire un regime antipanico nella sua routine, per prepararsi a situazioni come questa, dove a ogni passo i nervi gli si aggrumano nel basso ventre e spingono l’alcol bevuto in serata a umiliarlo nel peggiore dei modi.
Per fortuna la terza rampa di scale è la più corta e così la sua vescica non l’ha vinta.
Non ancora, almeno.
Mattsun lo precede nel corridoio e si ferma davanti alla prima porta a sinistra, sfilandosi nel frattempo la chiave dalla tasca. La sta già girando nella toppa quando con gravità si ferma, volge lo sguardo verso Takahiro e dice: «Ho dimenticato di chiederti una cosa».
Che è oggettivamente la frase più terrificante mai pronunciata.
«Spara» dice Takahiro, fingendo una tranquillità che davvero non prova.
«Non sei allergico ai gatti, vero?»
Takahiro sbatte le palpebre una, due volte.
«No» risponde infine. «Non sono allergico.»
Terrificato a morte, invece? Quello è un altro paio di maniche. Ma potranno affrontare l’argomento non appena a Takahiro sarà concesso l’uso del bagno. Se possibile entro i prossimi cinque secondi. No, davvero. Prima di subito.
La chiave schiocca nella serratura. Poi Mattsun apre la porta con la spalla, si allunga dentro l’appartamento per trovare l’interruttore e accende la luce del corridoio.
«Puoi lasciare il giubbotto lì» dice, indicando l’attaccapanni sovraffollato alla loro destra. «Aspetta, ti do qualcosa da mettere ai piedi.»
Scalciando via gli stivali, Mattsun scavalca lo scalino del genkan per avvicinarsi a un piccolo armadietto e tirarne fuori due paia di pantofole. Assomigliano pericolosamente a quelle che il nonno di Takahiro indossa ogni giorno per casa, ma al momento non importa. Davanti a lui c’è un problema molto più grosso. Davvero, davvero grosso.
E peloso. Molto, molto peloso.
Con movimenti lenti, attenti, Takahiro si sfila il cappotto e lo appende all’attaccapanni. Si infila le pantofole che Mattsun gli sta offrendo, poi si schiaccia contro il muro del corridoio, cercando di sviare l’attenzione della bestia.
Fallisce miseramente.
Lei continua a fissarlo con occhi grandi come lanterne, infossati in un muso schiacciato che sparisce tra il pelo grigio-bianco sparato in tutte le direzioni. È così folto da rendere il suo corpo un ammasso panciuto e informe. L’unica appendice visibile è una lunga coda spettinata che sbatte sul pavimento in un ritmico tum, tum, tum da film horror di serie B.
È uno spettacolo terrificante, anche peggio della madre di Iwaizumi. Il che è tutto un dire, perché quella donna è spaventosa.
«Tutto okay?» chiede Mattsun, vedendolo immobile contro la parete.
Takahiro non può, non deve allontanare lo sguardo dagli occhi del demonio impettito al centro del corridoio. È una guerra a due, ora. Se solo Takahiro sbattesse le palpebre, la bestia l’avrebbe vinta. E Takahiro non è disposto a diventare il suo nuovo stuzzicadenti.
«Il tuo mostro mi sta sfidando.»
«Non è un mostro, dai. Vuole solo conoscerti.»
«Come fai a esserne sicuro?»
Mattsun si avvicina alla bestia e la prende in braccio. Le lascia il tempo di sistemarsi contro il suo petto e allungare il muso imbronciato, e poi Mattsun sorride e le bacia il naso macchiato di bianco.
«Guarda com’è dolce» ha il coraggio di dire, mentre con le dita affonda intrepido nei cuscinetti rosati delle sue zampe e la spinge a sfoderare artigli affilati come pugnali. «Come fai a dire che è un mostro?»
Nel corridoio rimbomba un basso brontolio ronfante che Takahiro riconosce essere una minaccia di morte.
«È ufficiale» dice, deglutendo a fatica. «Vuole mangiarmi.»
«#Mood.»
Preso alla sprovvista, Takahiro non sa cosa sia peggio: se quel tentativo cannibalistico di seduzione o l’esplosione di calore che gli vibra nello stomaco al semplice sentire due parole. Due parole ridicole, tra l’altro.
«Hai davvero detto ‘hashtag mood’ ad alta voce?»
Mattsun si stringe nelle spalle con una risata. «Il bagno è là in fondo. Sentinella,» dice poi alla bestia, poggiandola a terra «indicagli la strada.»
«No, guarda, non ce n’è davvero bisogno—»
«Troppo tardi.»
Il leggero tap, tap, tap di zampe pelose si sta già muovendo giù per il corridoio, verso la porta socchiusa situata sulla destra. Controvoglia ma ormai sul punto del tracollo, Takahiro è costretto a trascinarsi dietro al mostriciattolo panciuto e chiudersi la porta del bagno alle spalle.
La stanza è piccola, resa ancora più stretta dalla bestia ora piazzata esattamente al centro, tra lavandino e parete. Per arrivare al WC, Takahiro deve scavalcarla. Ma con che coraggio? Quegli occhi giallastri continuano a studiare ogni suo movimento e gli ricordano di starsene al suo posto, ovvero: schiacciato contro la parete.
«Fammi passare, sì?, e nessuno si farà male» dice Takahiro, strisciando contro le piastrelle. Un passo dietro l’altro, assicurandosi di non pestare la lunga coda bianca che serpeggia sul pavimento, riesce eroicamente ad aggirare l’ostacolo—e all’improvviso non ce la fa più. Corre verso la tazza, alza la tavoletta e si sbriga a spingere in basso i pantaloni e i boxer. «Vedi di girarti di spalle» borbotta alla bestia. Poi si siede e si svuota rapido la vescica.
Il sollievo è immediato, e non solo fisico: insieme all’alcol, Takahiro si libera anche dello stress accumulato, della tensione al suo bassoventre, dell’insistente torcersi delle sue budella, e rimane con una semplice sensazione familiare, un nervosismo che per lui è una seconda pelle. Quello può sopportarlo.
Lo sguardo della bestia? Un po’ meno.
Dopo aver tirato l’acqua, Takahiro si avvicina al lavandino per lavarsi le mani. Oltre al rubinetto schiude anche il suo lato più pettegolo e lascia scivolare lo sguardo attorno a sé. Il bagno è ordinato come può esserlo uno spazio tanto ristretto, affollato di ceste in plastica impilate l’una sull’altra e piene zeppe di oggetti e asciugamani. La lavatrice spenta, con l’oblò aperto pieno di panni da lavare, ha la doppia mansione di comodino e ospita su di sé un phon usato di recente, dei flaconi di gel e di lacca, e un beauty case azzurro che Takahiro conosce alla perfezione.
Dopotutto, l’ha regalato lui a Oikawa.
Asciugandosi le mani sui jeans, e tenendo d’occhio la bestia-carceriere che gli sta alle calcagna, Takahiro si avvicina e solleva il cappuccio del beauty case. Il disordine al suo interno è tipico di Oikawa, delle serate in cui ha troppe cose per la testa e poco tempo per sciogliere i nodi dei suoi pensieri. Creme, correttori e ombretti sono accatastati gli uni sugli altri, lontani dalle loro taschine apposite e dai sacchetti di plastica che Oikawa ha iniziato a usare dopo quella volta in cui si è dimenticato di sigillare un barattolo di glitter. Takahiro potrebbe riordinare ogni prodotto; anche a distanza di un anno, l’insistenza maniacale di Oikawa continua a vibrargli alle orecchie. No! L’eyeliner va nella terza tasca, Makki, la terza, ti ho detto! Come se metterlo nella seconda o nella quarta tasca potesse essere la catalisi per una catastrofe naturale… Non che Takahiro l’abbia mai detto ad alta voce. A quello ci ha pensato Iwaizumi, e per poco Oikawa non gli ha mangiato la faccia. Così ora Takahiro ricorda che l’eyeliner va nella terza tasca, il mascara nella seconda, la colla per i glitter nella prima, i glitter zippati nei loro sacchetti, divisi per colore e per frequenza d’uso.
Ed ecco, Takahiro potrebbe riordinare il beauty case di Oikawa, ma per quale motivo? Stasera non ce n’è bisogno. Stasera è lui il protagonista.
Stasera, solo per stasera, può far finta di niente.
O almeno può provarci.
Tornato in corridoio con la belva davanti a sé, Takahiro avverte la presenza di Oikawa in altri angoli dell’appartamento. Una delle sue sciarpe è appesa all’appendiabiti; la sua valigia rossa sbiadita, quella che ha usato per trasferirsi quando è andato a vivere con Iwaizumi, è schiacciata contro il muro del corridoio, di fronte all’ingresso del salotto. Takahiro tenta di sollevarla e la sente pesante come un masso. Dev’essere ancora piena.
Tutto nella norma. Alla fine, Oikawa è abituato a vivere così: con il cuore chiuso e la valigia pronta. Così gli è più facile sparire senza preavviso.
Takahiro si volta verso la bestia, ancora in piedi al suo fianco, e per un attimo è tentato di fare un passo indietro. È da scemi, e lo sa. Ma non riesce a scrollarsi di dosso la sensazione che lei possa capirlo. Quegli occhi sospettosi sono troppo—troppo—come dire, troppo umani, e troppo umane sono anche le sue reazioni.
Quando Takahiro le chiede: «Dov’è il tuo papà?», la bestia volta il muso schiacciato e ondeggia con la coda elegante verso una porta pieghevole che Takahiro immagina essere quella del cucinotto.
«Cristo,» dice, seguendola in salotto a distanza di sicurezza «il tuo micione mi fa venire i brividi.»
La risata di Mattsun gli provoca lo stesso effetto, ma per motivi differenti e molto più piacevoli.
«Aspettami sul divano» dice Mattsun, ancora nell’altra stanza. «Sto preparando una sorpresa.»
Takahiro sbatte le palpebre, confuso. «Una sorpresa?»
«Di compleanno.»
«Per me?»
Un’altra risata, questa volta a bocca chiusa. «Vedi qualcun altro qui?»
Takahiro non sa come rispondere. Di sorprese ne ha avute fin troppe, questa sera: lo spettacolo di Oikawa al club, il mezzo crollo emotivo di Iwaizumi, l’incontro con Mattsun… Mattsun! Che l’ha aiutato a riavvicinare Oikawa e Iwaizumi. E poi ha flirtato con lui, invitandolo a casa sua, senza avvertirlo della presenza del gatto dagli occhi assatanati.
Quello stesso Mattsun che ora gli chiede di aspettare mentre gli prepara una sorpresa; che gli dice, e con che cortesia, di accomodarsi sul suo divano. Sul suo divano rosso. Sul suo divano rosso che Takahiro conosce già alla perfezione perché Mattsun ci ha filmato sopra una valanga di video e Takahiro se li è visti tutti, ripetutamente, un numero infinito di volte.
E ora Mattsun gli sta offrendo un posto nelle sue fantasie.
Un posto da protagonista.
Sedersi su un divano non è mai stato tanto difficile.
Con un respiro profondo, Takahiro si accomoda con la schiena dritta e tesa, le mani intrecciate, fintamente rilassate in grembo. Sembra un paziente in attesa di essere ricevuto dal dottore. E onestamente? L’idea lo fa agitare, e non per l’ansia. Mattsun in un camice è… un pensiero da inscatolare nell’angolo più remoto del suo cervello, da rispolverare solo quando Takahiro sarà solo e non a pochi attimi dall’imbarazzarsi di nuovo sul divano rosso dei suoi sogni.
Chissà poi cosa c’è di interessante in quel divano. È un divano normalissimo. Non è nemmeno rosso, ormai troppo sbiadito dall’uso. Deve avere più di vent’anni anni, forse è persino un pezzo di mobilio usato. I due cuscini che lo decorano hanno un orribile pattern a fiori gialli, arancio e viola. Non c’entrano niente con tutto il resto del salotto, eppure non sono mai fuori luogo quando Mattsun ne afferra uno, se lo infila sotto il bacino e lo usa come appoggio per schiudere le cosce e mettersi in mostra. Spesso è ancora vestito, con la maglia sollevata sul petto, i boxer appesi a una caviglia. Ed è tutto così mondano. Il divano rosso sbiadito, i cuscini floreali multicolore, delle dita bagnate che si spingono tra cosce aperte mentre fianchi agitati si sollevano verso l’altro, in sincronia con bassi sospiri di piacere.
Il tutto davanti a una telecamera situata in un angolo a cui Mattsun non fa mai caso.
È stato difficile abituarsi a quell’inquadratura così lontana, così ignorata. All’inizio lo faceva sentire un depravato, un guardone che fissa la sua vittima da uno spiraglio aperto sul muro. E poi si è reso conto di essere proprio quello: l’uomo che guarda a distanza, senza che nessuno lo sappia. Nemmeno Mattsun lo sa. Non sa che Takahiro lo sta studiando. Non sa che Takahiro sta riavvolgendo il video al minuto 2:05 o 7:49 o 10:26, quando la voce di Mattsun si piega in un gemito mozzafiato, quando le sue dita si stringono attorno ai suoi testicoli, quando il vibratore scivola fuori da lui e Mattsun ride, equamente divertito e frustrato da un orgasmo rimasto incompleto.
Ma ora Takahiro non è più protetto dall’anonimato del suo account Twitter. Ora Takahiro è dentro le mura da cui è solito spiare. Ora è seduto su quel dannato divano.
E Mattsun lo sa.
Cristo. Ma dove l’ha trovato il coraggio, Takahiro? La vodka di Iwaizumi dev’essere stata più forte del previsto, altrimenti non sa spiegarsi la sensazione di leggerezza che per un attimo, in macchina, ha oscurato le sue preoccupazioni e l’ha spinto a infilarsi in casa di Mattsun.
Non se ne pente nemmeno, e forse è quella la parte peggiore. Migliore? Takahiro non ne è certo. Sarebbe più facile capirlo, se solo la bestia pelosa non lo fissasse in quel modo, pronta a saltare al suo fianco con uno slancio da medaglia d’oro.
«Non ci provare» dice Takahiro, indicandola con l’indice. «Non ci provare!»
Ma la bestia sta già allungando una zampa. E poi l’altra. E un attimo dopo si arrampica sulle sue cosce, si gira su sé stessa piantandogli le unghie affilate nella carne, e si accomoda appollaiata sopra di lui, la lunga coda morbida che sbatte leggera contro il suo ginocchio.
Takahiro non sa dove mettere le mani. Non sa nemmeno se può respirare. Chissà se a una sedia umana è permesso?
«Di nuovo,» dice a Mattsun «la tua bestia continua a bullizzarmi! Potresti venire a…»
La sua voce scema mentre Mattsun supera la soglia del salotto con in mano un piccolo muffin illuminato da una candela.
«Tanti auguri a te» canticchia, avvicinandosi passo dopo passo, per poi lasciarsi cadere con un ginocchio piegato sul divano. «Tanti auguri a Makki, tanti auguri a teee.»
L’applauso che segue è il suono della coda della bestia che sbatte ritmicamente contro le cosce di Takahiro, ricordandogli di nuovo che non gli è concesso muoversi.
Ridere sì, però. E per fortuna. Perché abbassando lo sguardo sul muffin, Takahiro si accorge che quella non è davvero una candela, ma una sigaretta. Che è la cosa più ridicola che abbia mai visto.
«Sei un azzardo biologico» gli dice, grugnendo una risata che davvero non riesce a trattenere.
Mattsun gli lascia il muffin in mano con un breve inchino. «Grazie del complimento.»
Scuotendo il capo, Takahiro afferra la sigaretta tra indice e medio e si avvicina il muffin alla bocca per dargli un morso. Non è nulla di spettacolare, uno di quei dolcetti che si trovano al supermercato, pieni di conservanti nascosti dal profumo di vaniglia. Però è dolce. Quasi quanto Mattsun, che ora si gratta il retro del collo, come se fosse… imbarazzato?
«Mi sono accorto tardi di non avere candele in casa» dice con un sorriso impacciato. «A dire il vero, non ricordo nemmeno l’ultima volta che ho festeggiato il mio compleanno.»
Nemmeno Takahiro. Certo, qualche uscita con Iwaizumi e Oikawa c’è sempre stata e sua madre non si dimentica mai di preparargli il suo dolce preferito per cena, ma una festa vera e propria con torte e candele? L’ultima dev’essere stata quella dei ventun anni, quando insieme al suo compleanno hanno festeggiato l’arrivo del suo nuovo documento d’identità con il suo nome corretto. Dai ventidue in avanti festeggiare è sempre stato più un fastidio che altro.
Ma questo? Un piccolo muffin che finirà in una manciata di morsi, una sigaretta dall’odore intenso, una palla di pelo demoniaca che si è impossessata del suo grembo? A Takahiro non dispiace troppo.
L’unico problema è il ginocchio di Mattsun che gli sfiora la coscia. Il suo calore contro il proprio fianco. Il suo braccio rilassato sullo schienale del divano, dietro la testa di Takahiro. Se solo la inclinasse all’indietro, giusto un po’, le dita di Mattsun sarebbero nei suoi capelli, sulla sua nuca, a contatto con la sua pelle…
Takahiro si schiarisce la gola.
«Va benissimo così» dice, lanciandogli un’occhiata di sfuggita. Non riesce a guardarlo negli occhi quando gli chiede: «Fumi?». Ed è una domanda ridicola. Chi diavolo tiene sigarette in casa, se non ha intenzione di fumarle? Ma ora Takahiro ha bisogno di una distrazione; qualcosa, qualsiasi cosa, che distolga la sua attenzione dalla mano di Mattsun che scivola sulla sua e gli sfila la sigaretta dalle dita.
«A volte. Ti dispiace?»
Sì che gli dispiace. Gli dispiace che quel tocco sia stato tanto breve. Che ogni loro contatto sia uno sfioramento che svanisce in un secondo, lasciandogli la pelle palpitante dal bisogno di altre carezze. È insopportabile. Ma il coraggio farsi avanti Takahiro ancora non ce l’ha.
Così si sforza di scuotere la testa.
«No, fai pure» dice, e si dedica a spogliare il muffin dal suo pirottino, stando particolarmente attento a non spargere briciole sul divano e sulla pancia della bestia. Almeno così può fingere di essere educato, invece di mostrarsi per ciò che è davvero: sul punto di supplicare per un abbraccio.
Perché è quello che vuole, non è vero? Intimità. Con o senza vestiti, con o senza sesso. Certo, un bacio o due non gli dispiacerebbero, ma…
«Ehi!» esclama Takahiro, spalancando gli occhi. Da sotto di lui, la bestia ha allungato una zampa per rubargli il muffin di mano, e c’è anche quasi riuscita. «Questo è mio. Fattene dare un altro.»
La bestia inclina la testa, confusa. Ovvio che è confusa. È viziata da morire! Si aspetta che Takahiro le lasci addentare il suo muffin—il suo regalo!—come se nulla fosse. Ma con che coraggio.
«È inutile che mi guardi così» le dice con una smorfia. «Con me non attacca.»
Mattsun ride, una risata che gli oscura il viso con una nuvola di fumo, mentre i riccioli scuri si agitano sulla sua fronte. «Smettila di essere adorabile.»
«Ma come fai a dire che è adorabile? Guarda come mi—»
«Parlavo di te.»
«Ah.»
Merda.
Al suo fianco, Mattsun si è allungato sul divano sbiadito, tornando nella sua posa rilassata, a gambe divaricate, con una mano poggiata sulla coscia e la sigaretta stretta tra le dita. La bilancia con attenzione per non far cadere le ceneri, poi se la riporta alla bocca in maniera a dir poco oscena, schiudendo le labbra per un attimo prima di coprirle con l’indice e il medio. Quando le riscopre, allontanando lentamente il polso, la sua bocca è socchiusa e rilascia una breve fiatata di fumo.
Takahiro non riesce a distogliere lo sguardo.
E che colpa ne ha? Mattsun lo sta facendo apposta. Takahiro non sarà un esperto in seduzione, ma non è nemmeno totalmente scemo; non così tanto da ignorare il modo in cui Mattsun continua a guardarlo, con le sopracciglia folte e corrucciate, come a chiedere: che farai, ora?
Ottima domanda. Cosa vuole fare, Takahiro? Potrebbe allungare una mano come ha fatto Mattsun in macchina, poggiarla sulla coscia di lui e stringere la presa. Potrebbe risalire con le dita su per i suoi jeans, verso il suo cavallo, per accarezzare a palmo aperto la zip dei suoi pantaloni. Potrebbe abbassarla, persino, quella zip, e scivolare con le dita sui suoi boxer, sotto i suoi boxer, afferrare la sua carne in una presa solida, massaggiarla come gli ha visto fare infinite volte nei video: su e giù, non troppo velocemente, assicurandosi di fermarsi sulla testa per ruotare il polso e stringere le dita, massaggiando al contempo i tre piercing che gli decorano il frenulo.
Oppure potrebbe schiacciarsi contro il suo fianco, affondare con il viso contro la sua gola, inalare profondamente il suo odore fino a renderlo indistinguibile dal proprio. Potrebbe schiudere la bocca contro la sua pelle, assaggiarne il calore e il sapore con la lingua. O con le labbra. O con i denti. Takahiro non ha preferenze; vuole solo toccare, gustare, esplorare. Quelle sono cose che i video non possono dargli e che la sua mancata esperienza sul campo gli impedisce di ricreare nelle sue fantasie. Ma non ha senso pensarci ora, mentre Mattsun è lì, così vicino e così reale, tanto da rendere il bisogno di sentire ancor più soffocante.
Se solo Mattsun glielo lasciasse fare…
Se solo Takahiro se lo lasciasse fare.
Non è che sta cercando scuse. È solo che, proprio mentre sta a lui aprire bocca, Takahiro sente il telefono vibrargli in tasca una, due volte. È una notifica, nulla di così importante—in teoria. Ma se fosse Oikawa? O Iwaizumi? Se qualcosa tra di loro fosse andato storto? E se avessero bisogno di lui? Le probabilità sono estremamente basse, ma essere l’aiutante, il personaggio secondario, gli viene ormai naturale.
Ed è anche più facile di essere il protagonista.
Schiarendosi la voce, Takahiro chiede: «Ti dispiace?».
«Fa’ pure» dice Mattsun, sporgendosi in avanti per raccogliere il telecomando e accendere la televisione sulla replica di una partita di pallavolo. Il volume schizza in alto insieme alla parlantina eccitata del commentatore, così Mattsun si sbriga ad abbassarlo mentre prende un’altra boccata di fumo, sfiorandosi le labbra con le dita lunghe e spesse.
Takahiro si schiarisce la voce una seconda volta. «Intendevo, potresti»—sederti più vicino, cavarti i vestiti, lasciarti toccare fino a domattina—«togliermi la bestia di dosso?»
Per un attimo, Mattsun lo guarda intensamente, così intensamente da fargli venire la pelle d’oca. E i tremori freddi. E i dubbi. Ha parlato ad alta voce? Spera di no, spera davvero di no, ma forse… quasi quasi… tutto sommato…
Invece Mattsun si apre in un sorriso e si allunga alla ricerca di qualcosa. Lo trova a terra, spinto appena sotto il divano rosso sbiadito, non molto lontano dai loro piedi: il posacenere.
Ci spegne la sigaretta dentro. Poi, divertito, chiede: «Hai davvero paura dei gatti?».
«Non ho paura» risponde Takahiro di getto. «È solo che non ci vado d’accordo.»
«A me sembra che andiate più che d’accordo, guarda.» Allungando la mano, Mattsun si infila tra il pelo fitto della bestia e con qualche magia riesce a trovare il suo muso con le dita. Le dà una grattata dietro le orecchie, poi si spinge sotto al suo mento con la nocca dell’indice. Alla bestia deve piacere davvero tanto, perché inizia a vibrare come un elettrodomestico impazzito.
Non dev’essere normale provare gelosia per un gatto, ma onestamente? Quella bestia è troppo fortunata. Troppo! Senza doversi sforzare di chiederle, si becca tutte le carezze che Takahiro può solo sognarsi. E Mattsun sembra godersele tanto quanto lei.
Maledetti entrambi.
Ingoiando quell’invidia infantile, Takahiro aspetta che Mattsun afferri la bestia pelosa e la posi a terra. Poi solleva i fianchi dal divano e si infila una mano nella tasca, tentando con qualche difficoltà di sfilarsi il telefono dai jeans stretti.
È distratto quando accende lo schermo. Ancor più distratto quando apre la notifica appena ricevuta, in autopilota, per abitudine. Ma non ha più scuse quando clicca play e la voce del video inizia a parlare, ansimare, ridere—e all’improvviso è troppo tardi.
Mattsun si gira di scatto verso di lui. «Hai le notifiche ai miei tweet?»
E com’è che si dice?
Ah, sì.
Porca puttana.
«Non è un tuo tweet» si affretta a dire Takahiro, abbassando di colpo il volume del telefono.
Mattsun scoppia a ridere. «Guarda che il video è ancora acceso.» Con nonchalance si sporge verso Takahiro e lancia un’occhiata al suo schermo. «Ed è uno dei miei. Registrato tre giorni fa, proprio su questo divano, e programmato per la pubblicazione questa mattina.»
Il bastardo ha ragione. Il video è uno dei soliti che Mattsun posta sul suo Twitter all’una e mezza di notte, con l’eco della TV sullo sfondo, il petto nudo, i pantaloni di una tuta abbassati sulle cosce. Questa volta è sdraiato di schiena e con una mano si accarezza il ventre già bagnato da un orgasmo. Sta aspettando che il suo corpo si rilassi di nuovo per concedergliene un altro.
Merda, merda, merda.
«Questa parte è un po’ noiosa» dice Mattsun, allungando una mano verso lo schermo per mandare avanti il video. «Forse questa è migliore—»
Takahiro gli schiaffeggia via le dita, e se ne pente un attimo dopo quando le sue orecchie si fanno così rosse da pulsare sotto lo sguardo sorpreso di Mattsun.
«Non ho bisogno della telecronaca.»
«Era solo un consiglio.»
Takahiro non ha bisogno di consigli. Sa benissimo cosa dovrebbe fare: spegnere il telefono, gettarlo dalla finestra e tirarsi a sua volta fuori dall’edificio, con la speranza di cadere di testa e dimenticarsi di questa serata. O di questi ultimi dieci minuti. O almeno del video che continua a proseguire tra le sue mani tremanti e sudate, senza che Takahiro riesca a fermarlo.
E come potrebbe? Questi sono i suoi video preferiti, quelli in cui Mattsun non fa nulla se non godersi il proprio corpo in libertà, accarezzandosi con dita sporche, tracciando sentieri umidi su per il proprio petto, massaggiandosi distrattamente un piercing al capezzolo mentre il suo sguardo torna rivolto alla televisione. La telecamera è ancora accesa, pronta a catturare ogni movimento per il piacere di Takahiro, e Mattsun non ci fa caso. Dopotutto, il Mattsun del video non sa che Takahiro esiste.
Ma il Mattsun reale sì.
Takahiro si schiarisce la gola e si sbriga a spegnere lo schermo.
«Puoi continuare» dice Mattsun, tornando con il braccio sullo schienale del divano. Per un attimo le sue dita scivolano contro il collo di Takahiro, vicino all’attaccatura dei suoi capelli, causandogli una serie di brividi che avverte fin dentro alle ossa. «A guardare il video, dico. A me non dispiace.»
«A me sì» grugnisce Takahiro. Ha la schiena rigida, il collo sudato e le guance in fiamme, e l’unica cosa a cui riesce a pensare è il braccio di Mattsun stretto attorno a lui. «Sto letteralmente morendo d’imbarazzo.»
«Un po’ anch’io, dai.»
Takahiro gli lancia un’occhiataccia. «Guarda che non ti crede nessuno» dice, e si sente tremare il sangue nelle vene quando Mattsun viene scosso da una bassa risata.
«Senti un po’ qua» dice Mattsun. Afferrandogli una mano, se la porta alla guancia ruvida. La sua pelle è piacevolmente bollente, resa appiccicosa da un sottilissimo strato di sudore. Takahiro non sa se è suo o di Mattsun, e a dire il vero non gli importa. Non ha bisogno di sapere da chi dei due venga quel sudore, a chi appartenga il battito che si sente pulsare contro il palmo. Gli piace che ci sia il dubbio; gli ricorda di avere a fianco a sé una persona in carne e ossa, una persona che cerca contatto con la stessa intensità di Takahiro.
O magari no. Dopotutto, Mattsun ha molta più esperienza di lui. Non che ci voglia molto, ma è proprio quello il punto: Mattsun è così tranquillo mentre cancella la distanza che li separa, mentre Takahiro si sente vibrare di insoddisfazione, di incertezza, di terrore. Vuole toccarlo ovunque, sfiorare con le nocche la gola di Mattsun, tracciare con i polpastrelli le curve delle sue clavicole… e invece le sue dita sono rigide come quelle di un cadavere.
Takahiro ritira lentamente la mano.
«Sei caldo, in effetti.»
«Ammetto che non mi è mai capitato di guardare i miei video insieme a qualcuno» dice Mattsun con un leggero sorriso. «Ma c’è sempre una prima volta.»
«Oh» mormora Takahiro. Per un attimo quell’affermazione lo sorprende, poi lo lancia in un turbine di dubbi e confusione. «È—È strano?»
«Cosa? Guardare i miei video insieme?»
Takahiro non sa bene come rispondere, così si limita ad annuire.
«Non so se è strano,» dice Mattsun con una scrollata di spalle «ma di certo è sexy da morire. Allora?» Ticchetta con le dita sullo schermo di Takahiro, ritornando sul video lasciato a metà e cliccando di nuovo play. «Quale parte ti piace di più?»
Il Mattsun del video si sta scrollando di dosso i pantaloni e nel frattempo si allunga per trovare il telecomando. Distrattamente clicca qualche tasto, cambia canale, forse abbassa il volume della TV. E poi ecco che la sua mano scivola verso il basso, sui peli scuri del suo pube, sulla semi-erezione che riposa contro la sua anca. L’inquadratura della telecamera è leggermente decentrata e la lente è troppo distante per riprendere ogni singolo dettaglio, ma a Takahiro basta il leggero incespicare del petto e dei fianchi di Mattsun per immaginarsi la sua lunghezza arrossata e umida sobbalzare sotto i movimenti pigri del suo polso. E per fortuna che l’audio è spento. Altrimenti Takahiro avrebbe già risposto: «Mi piace la tua voce», e avrebbe spinto Mattsun ad ascoltare i suoi stessi gemiti, quelli bassi e sospirati che sembrano sfuggirgli senza che lui se ne accorga.
E, merda. Se Takahiro fosse a casa da solo, nel silenzio della sua camera, ora si infilerebbe sotto le coperte, scalcerebbe via i boxer, e imiterebbe i movimenti di Mattsun sul proprio corpo, approfittando degli umori che gli bagnano le cosce per massaggiarsi la testa gonfia del clitoride. Invece al momento non può farlo, per ovvi motivi. Primo tra tutti perché Mattsun è al suo fianco, poggiato contro di lui, attento a ogni sua reazione. Il suo corpo è così vicino, il suo calore così vivido, il suo profumo così intenso, e Takahiro non ci crede, non ci può credere.
Perché non ha ancora spento il telefono? Perché non è ancora corso alla ricerca di un tombino dell’infamia? E perché non sta odiando la situazione quanto dovrebbe?
La cosa non gli torna. È troppo surreale, troppo assurda, eppure è tutta realtà: Takahiro ha in mano il suo telefono pieno di desideri e per la prima volta in vita sua lo sta mostrando a qualcuno. Si sta mostrando a qualcuno, di propria spontanea volontà.
Ingoiando il nervosismo che gli secca la gola, Takahiro chiude gli occhi e si morde la punta della lingua. Non ha il coraggio di rispondere alla domanda di Mattsun, ma ora una cosa la deve dire, e la deve dire ad alta voce.
«Ho un account apposta.»
«Per?»
«Per, uh, seguire profili come i tuoi.»
La voce di Takahiro è bassa, leggermente incerta. Non sa bene come spiegarsi; non c’è per niente abituato. Anche su Twitter il suo account è blindato, tenuto morbosamente anonimo per nascondere la sua presenza online. E dal vivo a chi mai potrebbe dirlo? Sua madre è davvero fuori questione, ma nemmeno con Iwaizumi ha mai trovato il coraggio di farlo. E Oikawa, beh… lui ha già la testa piena dei suoi problemi. O almeno, questo è ciò che Takahiro si ripete ogni volta.
La verità è che è snervante. Trovare così tante scuse, nascondere di continuo cosa gli piace, cosa vuole, cosa sogna—è tutto snervante. Ma scoprirsi è ancora più difficile. Takahiro ci ha messo così tanto per ammettere a sé stesso di avere quelle fantasie che la sola idea di permettere a un’alta persona di scovarle, di studiarle, di—di—di capirle lo fa sentire così esposto da metterlo a disagio. E quel disagio peggiora quando Takahiro lo riconosce per ciò che è: il bisogno viscerale di essere scovato, studiato, capito.
Proprio ciò che teme di più al mondo.
Takahiro vuole lasciarsi guardare, tanto quanto desidera guardare a sua volta, ma l’intensità di quel bisogno lo lascia spaventato da sé stesso, da ciò che potrebbero pensare gli altri di lui. E se Iwaizumi lo fraintendesse? Se Oikawa restasse disgustato? E se sua madre lo venisse a sapere? E se, e se, e se? Takahiro se l’è chiesto così spesso da mettere in scena un melodramma immaginario da premio Oscar, un domino continuo di rifiuti e delusioni che si concludono con Takahiro in solitudine, stritolato in un bozzolo fintamente protettivo da cui non riesce più a fuggire.
Non ha bisogno di uno strizzacervelli per capire che lì dentro ci si è rinchiuso da solo, grazie tante. Ma se uscirne fosse così facile ora non si troverebbe sul punto di iperventilare mentre Mattsun, al suo fianco, lo studia con vivida curiosità.
Takahiro si passa una mano sul viso e cerca di prendere un respiro profondo. Può farcela, si ripete. Non può essere così difficile essere sincero, no? Ora ha solo bisogno di un attimo per calmare i nervi, per sgomberare la mente, per ricordarsi che tutto questo è normale. Avere fantasie è normale. Essere eccitati è normale. Voler condividere l’intimità di baci e carezze con qualcuno è normale. E forse Mattsun glielo può confermare.
Certo, rovesciare tutte le sue ansie nelle mani di un’altra persona non può essere la scelta migliore, ma a questo punto cosa cambia? Takahiro sente di aver già toccato il fondo; peggio di così non può andare. Tanto vale fare un tentativo.
«Non ho mai detto a nessuno di questo profilo» dice, stritolando il telefono tra le dita.
Più il video prosegue sullo schermo, più Takahiro si sente il collo bollente per la sensazione di essere guardato e ascoltato e sviscerato. È da veri ipocriti, e lo sa. Takahiro è il primo a guardare, ascoltare e sviscerare ossessivamente ogni video di Mattsun; è solo che, per qualche motivo, non ha mai pensato che la situazione si potesse ribaltare. E invece ora è successo: quei video hanno smesso di essere una fantasia distante e sicura, e ogni cosa è all’improvviso troppo vicina e pericolosa, come una verità taciuta troppo a lungo.
Ma ormai quella verità è stata scoperta. Takahiro non ha più nulla da nascondere.
«Sei la prima persona che sa della sua esistenza» continua, sforzandosi di sollevare il mento e puntare lo sguardo su Mattsun. Poi gli punzecchia lo sterno con il gomito, cercando di nascondere il tremore alle mani. «Guarda che onore.»
Mattsun ignora il suo tentativo di alleggerire la situazione, chiedendo invece: «Non l’hai mai detto a nessuno perché vuoi tenerlo segreto, o…?».
Takahiro sbuffa una risata sarcastica. Potrebbero passare ore su quella domanda, ma Mattsun non si merita di sentirgli vomitare tutti quei pensieri scarabocchiati che Takahiro non sa spiegare nemmeno a sé stesso. Così si limita a dire: «Anche, sì».
«Però a me l’hai detto» dice Mattsun, le sopracciglia corrucciate in un’espressione concentrata. «Avevi bisogno di parlarne con qualcuno?»
«Non lo so» mente Takahiro. Poi scuote la testa e butta fuori un sospiro. «In parte sì, credo. È complicato.»
Mattsun non indaga oltre. Cancella invece la distanza che li separa piazzando il palmo aperto contro la nuca di Takahiro, sporgendosi con il pollice per tracciare una serie di zig-zag delicati contro la sua gola.
Sembra pensieroso, Mattsun. Porta avanti le sue carezze con distrazione, completamente ignaro delle scintille che scoppiettano sotto la pelle di Takahiro e gli infiammano uno a uno ogni nervo scoperto. È una sensazione terrificante. Essere toccato con tanta sincerità, con quella patina di desiderio palpabile anche nel silenzio della stanza—è davvero terrificante. Lo riscuote più di quanto abbia mai fatto un orgasmo, e lo spinge a chiedersi cos’altro potrebbe provare, questa sera, su questo divano rosso, insieme a questo semi-sconosciuto, se solo se lo concedesse.
Il pensiero lo distrae così tanto che, per un attimo, Takahiro rischia di non sentire la voce di Mattsun quando lui gli chiede: «Posso vedere?».
«Cosa?»
«Ciò che ti piace guardare.»
La frase lo colpisce come uno schiaffo. Anzi, anche peggio. Almeno a uno schiaffo saprebbe come reagire: gli basterebbe ricambiare il favore, alzarsi e andarsene senza guardarsi indietro. E invece no, Mattsun non ha intenzione di rendergliela così facile. Preferisce porgere la mano libera a Takahiro, il palmo aperto verso l’alto, le dita arricciate in un invito.
Non c’è alcuna insistenza in quel gesto. Takahiro potrebbe semplicemente dire no, è qualcosa di privato, non voglio fartelo vedere. Non sarebbe nemmeno una bugia. La verità è che si è buttato in quella confessione senza pensarci davvero e ora non può fare a meno di dubitare di sé, di pentirsi di aver aperto bocca, di sentire il bisogno di scappare via.
È una sensazione che conosce bene. Gli ricorda uno dei suoi primi incontri con la chirurga, quando sedeva in sala d’attesa con i vestiti inzuppati dalla puzza rancida di sudore; quando ogni bisbiglio, ogni passo, ogni ticchettare dell’orologio gli rimbombava in testa come una campana d’allarme; quando il disco rotto della sua ansia gli intimava di alzarsi, di abbandonare la clinica, di non fare il passo più lungo della gamba.
Ma quel ricordo se ne porta sempre altri appresso.
Il suo nome, il suo vero nome, quello che si è scelto per sé, venir chiamato da un infermiere. Il cenno di supporto di sua madre. Le calme risposte della chirurga a ogni sua domanda. E quella sensazione di leggerezza provata una volta tornato a casa, quando sulla sua scrivania riposava un piano dettagliato per un’operazione che in pochi mesi avrebbe permesso al resto del mondo di vederlo così come Takahiro ha sempre visto sé stesso.
Ora se ci pensa gli viene da ridere. Il terrore di quella giornata è da tempo stato soppiantato dall’euforia post-operazione, quando la sua pelle si è richiusa in pallide cicatrici e la sua maglia preferita ha iniziato a calzargli a pennello sul petto finalmente piatto.
E quanto può essere stupido? Dover aver imparato ad accettare il suo corpo per ciò che è, Takahiro inciampa su ciò che quel corpo può fare. Tipo, attirare delle avance. Tremare di piacere sotto mani sconosciute. Adagiarsi contro un corpo altrui, pelle e carne e arti incastrati insieme come un puzzle. Tutte cose che Takahiro desidera, ma da cui fugge a gambe levate non appena rischiano di diventare realtà.
Per quale motivo, poi? Per quell’assurda paura di mostrarsi per ciò che è davvero, con tutti i suoi dubbi, i suoi bisogni e le sue fantasie.
«Non devi sentirti obbligato» dice Mattsun al suo silenzio.
Takahiro scuote la testa e le dita di Mattsun gli solleticano gentilmente la pelle del collo, ricordandogli della sua presenza. È piacevole; un semplice sfioramento che lo spinge a socchiudere di nuovo gli occhi, a lasciar crollare il capo all’indietro contro i cuscini del divano, a chiedere silenziosamente di più.
«Non mi sento obbligato» mormora, e nel dirlo si rende conto che è vero.
Takahiro è lì perché è lì che vuole essere: seduto su quel divano rosso sbiadito, con dita rilassate che disegnano scarabocchi contro il suo scalpo, che si infilano tra i suoi capelli corti. E fanculo all’ansia che gli corrode lo stomaco, fanculo a tutti quegli e se? e se? e se? che gli rimbalzano nella testa. Questo è ciò che vuole. Ciò che cerca da tempo. Ciò che non vede l’ora di esplorare, e che Mattsun sembra disposto a esplorare con lui.
«Prometti di non prendermi in giro.»
«Io?» dice Mattsun, la voce blanda e monotona. «Ti sembro il tipo da fare una cosa del genere?»
«Sì.»
Le spalle di Mattsun si scuotono in una risata silenziosa. «Okay, te lo prometto.»
«Non mi convinci nemmeno un po’» borbotta Takahiro, ma ormai ha fatto la sua scelta. Prima che possa pentirsene, sblocca lo schermo e lascia il telefono in mano a Mattsun.
Lui si risistema sul divano, rilassandosi contro lo schienale e premendosi con una coscia contro quella di Takahiro. È una pressione delicata, la semplice presenza di un corpo caldo di fianco al suo, ma proprio quella pressione gli ricorda in che situazione si trova. Senza più barriere di protezione. Nudo davanti a ciò che desidera.
Takahiro si sente il viso in fiamme. Poi quella sensazione si sparge giù per la sua gola, sul suo petto, al centro del suo ventre mentre con un paio di tap, tap, tap Mattsun naviga espertamente sulla sua timeline, sfogliando foto dietro foto, video dietro video. Merda, quanti ce ne sono. Sembrano non finire più, in un susseguirsi di mani anonime, bocche e cosce aperte, lingerie, latex e corde sporche di saliva, sperma e umori che Mattsun studia con attenzione quasi clinica. Su una foto fa persino lo zoom, come se stesse controllando i dettagli di un’opera d’arte invece di un selfie post-threesome.
Takahiro semplicemente non può reggere quello stress.
«Sei troppo silenzioso.»
Volgendo lo sguardo verso di lui, Mattsun dice: «Posso andare sul tuo profilo?».
«Era meglio se stavi zitto» risponde Takahiro, strappandogli una risata. Ma non c’è davvero niente da ridere. Takahiro vorrebbe urlare un no! categorico, riprendere possesso del proprio telefono e forzarselo giù per la gola. Magari così si strozzerebbe e non sarebbe costretto a sopportare quell’atmosfera indecente che gli fa tremare i nervi del bassoventre.
Eppure… Cristo, quanto gli piace. Il suo viso si fa sempre più rosso e il suo stomaco sempre più caldo, e Takahiro non riconosce più sé stesso mentre dice: «Se proprio devi...».
«Non è che devo,» dice Mattsun, sporgendosi per sfiorargli la guancia con la punta del naso «ma di certo ne ho voglia.» E con altri rapidi tap, tap, tap arriva sul profilo di Takahiro e va alla ricerca dei Tweet a cui ha messo mi piace.
Takahiro si agita sul posto, deglutendo a fatica.
Non riesce a guardare.
Sa bene cosa sta vedendo Mattsun. Lo sa benissimo, anzi, perché ha passato la sera prima a ripescare e riguardare i suoi video preferiti. Come quello del cinquantenne che si lascia spingere contro il muro da un ragazzo di vent’anni più giovane e accoglie ogni spinta con gemiti di piacere e commenti estasiati che Takahiro non avrebbe mai il coraggio di ripetere ad alta voce. Oppure l’altro video, subito dopo, con protagonista uno degli amici ballerini di Oikawa. Non è nemmeno un video esplicito. C’è solo qualcosa nel modo in cui Kuroo muove i fianchi snelli contro il palo eretto al centro della sala prove, nel modo in cui le sue gambe si schiudono in spaccate quasi perfette, nel modo in cui le sue spalle larghe guizzano a ogni piroetta, che Takahiro non riesce a smettere di guardare. Oh, per non parlare di quel video dove—
«Non ci sono tante ragazze» dice Mattsun distrattamente. «E quelle che ci sono...» Con un lungo fischio, volta lo schermo verso Takahiro e gli mostra la foto che sta guardando. È ripresa dal basso, come se il fotografo fosse sdraiato a terra, e riprende una Domme con gambe lunghissime, cosce piene e muscolose, e uno strap-on stretto attorno al bacino. Il dildo azzurro che sporge dall’imbragatura è grosso quanto il braccio di lei, che è magro, sì, ma comunque…
Takahiro si affretta a sfogliare verso l’alto.
«Ehi, stavo ammirando.»
«Davvero non ti sopporto» dice Takahiro, ma non riesce a trattenere lo sbuffo di una risata.
Si trova in una situazione imbarazzante, tremendamente imbarazzante, ma il sorrisetto sulle labbra di Mattsun è tutto tranne che disgustato. Anche i suoi commenti sono scherzosi; forse punzecchianti, certo, ma con quella leggerezza che tiene viva la tensione tra di loro, in un giocoso tira e molla che spinge Takahiro a pizzicare il braccio di Mattsun e Mattsun a rispondere con un finto ringhio animale.
E nonostante la secchezza alla gola, nonostante il battito che gli tamburella alle orecchie, Takahiro non sente davvero il bisogno di scappare via. Solo di nascondersi; non per la vergogna ma per crogiolarsi nella sensazione di essere cercato, seguito, stanato, e poi obbligato ad ammettere ogni fantasia per farla diventare realtà.
Un po’ come sta succedendo ora.
«Oh» dice Mattsun. Si è fermato sulla foto di un ragazzo con addosso un babydoll rosa pallido. Il reggiseno semi-trasparente lascia intravedere la curva del seno piccolo, i capezzoli scuri e i morsetti decorativi che li tengono eretti. «Ho fatto dei video con lui.»
Takahiro lo sa fin troppo bene. È grazie a Mattsun che ha trovato il suo profilo, ma dirlo ad alta voce richiederebbe una dose di coraggio che Takahiro non ha più in scorta. Così ci gira attorno, tentando con: «Tu non fai molte, uh… collaborazioni?».
Mattsun si stringe nelle spalle. «Beh, questo non è davvero il mio lavoro. È più uno svago, sai com’è?»
Takahiro decisamente non sa com’è, ma annuisce per farlo continuare.
«Se mi capita di incontrare qualcuno e mi sento a mio agio, perché no, un video insieme ci può stare. Ma non succede spesso. Filmarmi da solo mi piace di più, e tutto sommato è meno stressante.»
«Stressante?»
«Sul mio profilo posso fare ciò che mi pare» gli spiega Mattsun. «Posso filmare e caricare video quando voglio e se voglio, oppure posso prendermi una serata libera senza nessun problema. Ma in una collaborazione devo tenere conto del pubblico del mio partner, capire quali sono le luci, le inquadrature e le posizioni migliori… e poi devo entrare nel mood su richiesta. È molto più stancante.» Lanciandogli un’occhiata sbieca, Mattsun si gratta la guancia con fare stranamente impacciato. «Anche se detta così sembro un egoista.»
Takahiro scuote la testa. «No, lo capisco. A volte vuoi solo un po’ di tempo per te, no?»
«A volte» conferma Mattsun con un sorriso. Poi si preme con la coscia contro quella di Takahiro. «Ma questa sera sono felice di non essere da solo.»
Il modo in cui lo dice è così deliberato da rendere ogni implicazione vivida ed esplicita, così vivida ed esplicita che il cervello di Takahiro non regge. E infine è ufficiale: Mattsun l’ha mandato in cortocircuito. Gli ha scorticato la pelle con una manciata di semplici parole e con un breve tocco si è strofinato contro i suoi nervi scoperti e sensibili, così poco abituati al contatto esterno da andare in fiamme al minimo sfioramento.
Ora Takahiro si sente vibrare dal bisogno di allungare le mani, aggrapparsi alla coscia di Mattsun e stringersela contro il bacino. Di strusciarsi contro di lui, di spogliarlo della sua maglia, di mordergli la pelle nuda sulle clavicole profonde. Di smettere di parlare, di pensare, di immaginare, e perdersi insieme a lui, corpo contro corpo, carne contro carne, tra sudore e saliva e sporcizia. E al diavolo la vergogna. Takahiro non ne può più. Vuole solo un attimo di pausa, un momento in cui esistere e basta, senza pensieri e preoccupazioni, guidato solo dagli istinti e dal piacere. E c’è così vicino, cazzo, così vicino…
Perché è tanto difficile lasciarsi andare?
Non sa quante volte se l’è chiesto, stasera, ma ogni volta è sempre peggio. Gli fa venire il dubbio che tutte queste attenzioni non se le meriti. Che sia tempo di smetterla di provarci, persino. Che tanto non sarà mai all’altezza.
Ed è assurdamente sciocco perché, insomma, Mattsun è stato il primo a farsi avanti, a cancellare la distanza tra di loro, a spingersi oltre le barriere di Takahiro. E ora con dita gentili gioca con il suo orecchio, gli pizzica il lobo, gli solletica la pelle sensibile vicino all’attaccatura dei capelli, e lo fa in modo così naturale, così spontaneo, così… semplice. Come se non ci fosse bisogno di pensarci troppo. Come se gli bastasse godersi quella vicinanza.
«Ehi,» dice Mattsun, la voce bassa e lenta come una carezza «sei ancora con me?»
Takahiro cerca di nascondere un sussulto schiarendosi la voce. «Sì,» dice incerto «più o meno».
Dev’essere così chiaro che Takahiro non è abituato a niente di tutto quello: non agli sfioramenti, non alle avance, non al mettersi a nudo. Ma a Mattsun non sembra importare. Continua a toccarlo, spingendo le dita verso il mento di Takahiro per fargli voltare il viso, per attirare il suo sguardo. Quel contatto lo aiuta, lo centra. Lo obbliga a prestare attenzione alle loro pelli che si accarezzano, alla breve distanza che li separa, ai baci che gli vuole dare.
Takahiro si lecca le labbra secche e Mattsun segue il movimento prima con gli occhi, poi con il pollice.
«Vuoi continuare?»
Sì, Takahiro vuole continuare. Sì, vuole quel bacio che lo sguardo di Mattsun sembra promettergli. Anzi, no, un bacio non gli basta: vuole una notte intera di baci. Vuole che arrivi l’alba prima che le loro bocche si separino. Lo vuole, lo vuole, lo vuole—diavolo, quanto lo vuole.
Ma riesce solo ad annuire.
«Bene. Allora dimmi,» dice Mattsun, e nuovamente spinge il telefono verso Takahiro «questo ti piace?»
Sullo schermo c’è un’altra foto del ragazzo in lingerie, ora zoomata sull’intimo semi-trasparente che tenta inutilmente di nascondere la forma chiara di un’erezione. È piccola, abbastanza da poterla avviluppare in un palmo, ma la stoffa è così striminzita da non riuscire a contenerla. Ed è sexy da morire. Takahiro potrebbe guardare quella foto per ore, e non sarebbe nemmeno la prima volta. Ha passato più di una notte a ingrandire ogni pixel, indeciso tra il desiderare quel corpo vicino a sé o desiderare quel corpo per sé.
Solo di recente ha capito che la risposta non è nessuna delle due.
Solo di recente ha imparato ad ammettere che gli piace guardare.
Da lontano e da vicino, dallo schermo e nella vita reale, senza obbligarsi a scegliere. Senza struggersi tra gli oppure. Lasciandosi guidare solo dai piccoli dettagli che catturano la sua attenzione – piercing solitamente nascosti, voglie che spariscono sotto l’abbronzatura, una serie di nei quasi invisibili – e dal piacere che ne trae nello scovarli. Ed è bravo a scovarli. Dopotutto, ha una vita intera di esperienza da spettatore.
Forse è per questo che ora, sul divano rosso di Mattsun, riesce a stento a ingoiare la propria saliva. L’idea di essere sotto i riflettori non gli è mai passata per la testa, non gli è mai sembrata possibile, e ora non sa come comportarsi.
Schiarendosi la voce, si passa i palmi sudati contro i pantaloni.
«Boh» dice senza sapere dove guardare, se Mattsun o il telefono o nessuno dei due. «Cioè, non mi dispiace. La lingerie, dico. Ma non su di me.»
«Niente lingerie, mh? Ho capito» dice Mattsun pensieroso. Intanto continua a sfogliare i mi piace di Takahiro finché non arriva a una sua foto, o meglio: una foto del suo frenulo, con i tre piercing impilati uno sotto l’altro in splendida mostra. «Questo, invece? Ti piace?»
Takahiro si sente avvampare fino alle punte dei capelli. Non ha bisogno di guardarsi allo specchio per sapere di aver superato la soglia umana dell’imbarazzo e aver raggiunto il color piovra. L’unico peccato è di non essere diventato una piovra per davvero: al momento quelle sei braccia in più gli tornerebbero utili. Se non per nascondersi, almeno per schiaffeggiare Mattsun.
«Sei davvero insopportabile» dice a denti stretti.
«E tu non stai rispondendo alla domanda.»
Se è per questo, non sta nemmeno distogliendo lo sguardo. Ci sta provando, ma non ci riesce. E la colpa è tutta di Mattsun, del modo in cui stringe il telefono, pigramente, con tre dita sulla base, con il polso rilassato contro la coscia.
È lo stesso modo con cui si stringe l’erezione nella foto.
«Cristo» mormora Takahiro, e gli pungola il fianco con il gomito, rilasciando uno sbuffo a metà tra un sospiro e una risata. «Puoi risponderti da solo.»
«Oh, no. Non è così che funziona il gioco.»
«Quale gioco?»
«Questo.» Con l’indice, Mattsun indica prima sé stesso e poi Takahiro. «Io che faccio domande e tu che odi ogni secondo.»
«Almeno ne sei al corrente.»
La risata di Mattsun riscuote anche Takahiro. E cazzo, se non è piacevole quella sensazione. Soprattutto mentre Mattsun scivola con un braccio attorno alle sue spalle e attira Takahiro più vicino.
«Quindi?» incalza Mattsun di nuovo. «Ti piacciono, sì?»
La presa di Mattsun si fa più ferma, forse troppo ferma; così tanto da far sbilanciare Takahiro, obbligandolo ad appoggiarsi sulla prima superficie che trova. Un muscolo morbido, gonfio, caldo—la coscia di Mattsun. Ora sotto le sue mani. E, merda. All’improvviso le sue dita si muovono da sole: fuori dal suo controllo, guidate solo dal bisogno di accarezzare, risalgono verso il pube di Mattsun, ridiscendono tracciando il sentiero della sua zip.
Mattsun risucchia un respiro e Takahiro solleva rapido lo sguardo.
No, Takahiro non ha esperienza; solo tante fantasie. No, non sa cosa sta facendo, in che situazione si è infilato, cosa lo aspetta; però vuole scoprirlo lo stesso. E per una volta si sente di poterlo fare. Di potersi spingere di oltre. Di trovare il coraggio di dire: «Posso?».
«Fai pure» dice Mattsun, lasciandogli il via libera.
Le mani di Takahiro tremano mentre aprono il bottone e spingono giù la zip di Mattsun. E poi ancora di più, quando sfiorano il cotone sottile dei suoi boxer e con lenti tentativi trovano la sua forma semi-eretta, imprigionata sotto la stoffa tesa e attillata e—
Takahiro sbatte le palpebre, confuso. Abbassa ciò che resta della zip e inclina il capo, lasciando filtrare la luce tra le sue mani. Per un attimo pensa di aver visto male.
Poi scoppia a ridere così forte da crollare contro Mattsun, la guancia contro la sua spalla e il corpo scosso dai tremori. Non riesce a smettere nemmeno quando dice, tra una risata e l’altra: «Ho davvero molte domande».
«Senti, su questo divano non si giudica» dice Mattsun, sulla difensiva. «Questa settimana mi si è rotta la lavatrice e mi son dovuto arrangiare con ciò che avevo di pulito.»
«Ovvero i boxer natalizi?»
Mattsun si stringe nelle spalle con esagerata nonchalance. «Proprio così.»
Takahiro sghignazza senza ritegno. È più forte di lui. È da quando si sono incontrati che Mattsun si fa avanti con una civetteria dietro l’altra, ogni avance sempre più ovvia, sempre più palese; e ora eccoli lì a spogliarsi, ogni movimento carico di aspettativa e desiderio e acquolina in bocca, e Mattsun, lui—sta indossando dei boxer con piccole canne di zucchero bianche e rosse sparse sul cotone verde scuro.
È assolutamente ridicolo. Decisamente poco sexy.
Tremendamente adorabile, però.
«Non c’è bisogno di ridere così tanto.» Le sopracciglia di Mattsun si arruffano mentre le sue dita discendono sul braccio di Takahiro e si avvolgono attorno al suo polso per impedirgli di allontanare la mano. «Tra l’altro non sai che ti perdi.»
«Cosa mi perdo?»
«La mia stecca di zucchero» dice Mattsun, e solleva il bacino per premersi contro il palmo di Takahiro, l’erezione calda e dura ancora in attesa. «Senti com’è dolce.»
Takahiro rabbrividisce, all’85% dall’imbarazzo. Il restante 15% è qualcosa che si rifiuta di nominare perché la situazione è già fin troppo ridicola, grazie tante.
«Vorrei che tu non l’avessi mai detto.»
Mattsun sorride. «E invece l’ho detto.»
E invece l’ha detto. Senza arrossire, o balbettare, o sentire il bisogno impellente di scavarsi un varco nel pavimento e sotterrarsi sotto un chilometro o due di terriccio e detriti.
La mia stecca di zucchero.
L’ha pronunciato senza sforzi, senza imbarazzo, senza vergogna, con un’ombra divertita sulle labbra già schiuse da un sospiro invitante. Un’impresa da premio Oscar, secondo il modesto parere di Takahiro.
Senti com’è dolce.
La mano di Takahiro è ancora su Mattsun, il palmo aperto sul suo cavallo, le dita curvate attorno alla sua erezione. Quel breve scambio non l’ha sgonfiata, anzi. Takahiro la sente sempre più piena, tesa contro il cotone dei boxer, pronta per essere spogliata, afferrata e massaggiata.
Takahiro deve solo farsi avanti. Smettere di dubitare. Divertirsi come fa Mattsun, trasformando tutto in un gioco e ignorando la furia di pensieri che gli riempiono la testa. Deve solo scegliere ciò che vuole, per una cazzo di volta, invece di tirarsi indietro per paura di non essere abbastanza—abbastanza esperto, abbastanza bravo, abbastanza giusto.
Ed è così sciocco pensarlo mentre Mattsun si struscia con il bacino contro di lui, chiamando piano il suo nome, ansimando: «Andiamo, non fermarti».
Cercando di controllare le proprie dita, Takahiro pizzica i fianchi di Mattsun per farglieli sollevare di nuovo. Poi s’infila con le dita sotto l’elastico dei suoi boxer e glieli abbassa sulle cosce.
Ora non c’è più niente a separarli. Ora la pelle nuda di Mattsun è premuta, calda e umida, contro il palmo di Takahiro. Ora Takahiro ha la possibilità di assaggiarlo come desidera.
Con i polpastrelli risale sulla lunghezza di Mattsun. Gliela preme contro il ventre ancora coperto dalla maglia, ne mette in mostra il lato inferiore; poi raggiunge la scaletta di piercing che lo decora. Non riesce a trattenere un mugolio di sorpresa, un suono basso e prolungato, intenso quando la sua disperazione. E chi lo può biasimare. Sono mesi che Takahiro ammira quei piercing in foto, infinite foto, e in video, infiniti video, rallentati e riavvolti e studiati con attenzione maniacale. Eppure il suo schermo non l’ha preparato per—per—per quel calore sotto le dita. Per il metallo dei piercing accaldato quanto la pelle in cui è incastonato. Per il modo in cui Mattsun si morde le labbra a ogni sua carezza.
Gli viene voglia di continuare a esplorare, e allora lo fa, avvolgendo la mano attorno alla punta di Mattsun per stringere la presa, per sentire che reazione riuscirà a strappargli questa volta.
«È stato doloroso farli?»
Mattsun si lascia andare contro lo schienale del divano, le cosce schiuse ancora incastrate tra i pantaloni abbassati. «Mmh, pensavo peggio, in realtà.»
«Davvero?» chiede Takahiro, ruotando con attenzione il polso, sentendo le sbarrette dei piercing imprimersi contro il suo palmo.
La risposta di Mattsun è un breve sospiro, un suono umido e pulsante. Takahiro lo sente dritto nelle vene perché lo conosce, intimamente. È il bisogno di essere spogliato da ogni vestito. Di essere toccato fino allo sfinimento. Di essere esplorato fino a esporre ogni segreto.
Chissà quanti ne nasconde, Mattsun.
Mordendosi la lingua, Takahiro abbandona la presa e si arrampica con le dita su per il suo ventre, sopra la sua maglia scura. Vorrebbe infilarcisi sotto, attraversare con le dita il sentiero di riccioli che risale dal suo pube, si spinge fino al suo ombelico e si dirada, scomparendo, sul suo stomaco. Ma così resterebbe senza una guida, perso davanti a pelle morbida e muscoli rilassati. No, Takahiro non riuscirebbe a reggerlo. E allora apre il palmo sopra la sua maglia, si permette di assaggiare con calma il petto di Mattsun che si alza e si abbassa, si alza e si abbassa, si alza e si abbassa—e poi sobbalza di colpo non appena le dita di Takahiro raggiungono il suo capezzolo destro, lì dove la forma di un anello si imprime contro la stoffa della sua maglia.
«Questo, invece?» chiede sottovoce, indice e medio stretti attorno al piccolo piercing. «Ha fatto male?»
«Oh, li conosci tutti, i miei piercing?» lo stuzzica Mattsun. Ma quando Takahiro tenta di ritirare la mano, all’improvviso terrorizzato di aver superato un limite, Mattsun lo trattiene per il polso. Gli fa riaprire il palmo. Se lo preme di nuovo contro il petto. Poi risponde: «In realtà no. Il capezzolo destro mi ha dato non poche rogne—ha fatto infezione, il bastardo. Questo, invece,» si accarezza con le dita il capezzolo sinistro, facendolo risaltare contro la maglia «è guarito senza problemi. Vuoi controllare?».
Che domanda sciocca. Certo che vuole controllare, grazie tante. Gli saliva la bocca al solo pensiero, e non è solo un modo di dire. Il suo corpo è un bastardo traditore.
Passandosi un dito sul mento, Takahiro tenta di deglutire l’eccitazione, il nervosismo e l’imbarazzo, ma le sue labbra sono già umide, la sua gola troppo agitata.
«Smettila di prendermi in giro.»
«Non ti sto prendendo in giro» risponde Mattsun. Le sue dita sono ancora sul suo capezzolo coperto dalla stoffa. Lo pizzicano, lo tirano, lo appiattiscono. Takahiro non riesce a distogliere lo sguardo. «Sei tu che stai temporeggiando.»
«Non sto temporeggiando.»
«Che è esattamente ciò che direbbe un temporeggiatore. Molto magico.» Con una risata, Mattsun ritrae la mano e se la lascia crollare in grembo. «Perché sei ancora qui, Makki?»
Non c’è cattiveria nella sua voce. Solo curiosità; quella curiosità pressante che cerca la verità con l’acutezza di una lama. Quella stessa curiosità che spinge Takahiro a fermarsi, sporgersi indietro con la schiena e aprire gli occhi.
Mattsun ha i pantaloni abbassati, le cosce aperte, l’erezione umida e tesa. I suoi piercing si intravedono da sotto la stoffa, all’altezza del petto. E la sua gola è nuda, agitata, in attesa, come lo è Mattsun. Chissà da quanto. Takahiro ha giocato con il suo corpo, spogliandolo e accarezzandolo, senza dargli nessuna sicurezza. Sempre sul punto di scappare via. A una parola di distanza dal rinchiudersi in sé stesso.
E Mattsun gliel’ha permesso. Si è lasciato usare perché Takahiro trovasse il suo equilibrio, perché trovasse la forza di ammettere cos’è che vuole, da quella serata e da sé stesso. Ma la risposta è solo una.
«Stiamo festeggiando il mio compleanno.»
«Chiacchierando e sfogliando Twitter?»
«Non è poi così male…»
«No, ma potrebbe essere meglio» dice Mattsun, ripescando il telefono dal divano. Lo sblocca in un attimo, riapre Twitter e lo sfoglia con la rapidità di qualcuno che sa esattamente cosa sta cercando. Non appena lo trova, clicca play e volta lo schermo verso Takahiro. «Tipo.»
Il video parte a metà, con Mattsun già a terra, con le ginocchia già divaricate, con le mani già appoggiate al pavimento. I suoi fianchi si muovono in spinte rapide, si lasciano crollare su un dildo pallido che scompare interamente sotto di lui, dentro di lui.
«Merda» ansima Takahiro. «Sei veramente—»
Mattsun ride, ma questa volta la risata è bassa e scura, le sue guance accaldate. «Vuoi provare?»
«Cioè. Io... con te?»
«Mh-mh.»
Takahiro lancia un’occhiata al telefono, poi a Mattsun, poi di nuovo al telefono. «Adesso?»
«Quando vuoi» dice Mattsun, paziente.
È così diverso dal Mattsun del video. Lui non aspetta. Non considera la titubanza di Takahiro. Continua a sollevarsi e riabbassarsi sul suo dildo, i movimenti sempre più veloci, sempre più frenetici, scanditi dalla sua erezione che sobbalza al ritmo dai suoi sospiri di piacere. E la cosa peggiore è che la telecamera non riesce a inquadrare tutto. Quando Mattsun rilassa le cosce, quando i suoi fianchi crollano contro il pavimento, il suo corpo divora ogni centimetro del dildo, facendolo svanire. E a Takahiro non basta. No, lui vuole vedere i muscoli di Mattsun serrarsi attorno all’asta di silicone, la punta arrotondata che si forza dentro di lui, il lubrificante che gli unge la pelle e cola insistente tra i suoi glutei.
Gli basterebbe un piccolo cenno. Un piccolo, misero cenno, e Mattsun gli offrirebbe lo spettacolo privato che tanto desidera. In diretta. Dalla prima fila. A distanza così ravvicinata da non lasciargli modo di pensare a nient’altro.
E non è forse quello il problema? Takahiro pensa tanto, pensa troppo, pensa fino allo sfinimento; pensa finché nella sua mente non si sono accavallati tutti i possibili risvolti negativi, tutte le possibili delusioni, tutte le possibili umiliazioni, e l’unica cosa che gli resta da dire è il solito: «Magari la prossima volta».
C’è sempre una prossima volta, con Takahiro. Una prossima volta che non si avvera mai.
«Okay» risponde Mattsun. Non sembra deluso, solo confuso. E come biasimarlo. Takahiro non riesce a distogliere lo sguardo dal Mattsun del video, non riesce a staccarsi dal fianco nudo del Mattsun reale. Glielo si legge in tutto il corpo che vuole continuare, che vuole ciò che Mattsun gli sta offrendo. Eppure continua a rimandare.
Mattsun dev’essersi stufato di lui, ormai. Ma il suo sguardo non fa pressioni. Si limita a studiare Takahiro con attenzione e intanto trova qualcos’altro da proporgli.
«Un bacio me lo dai?»
Cristo. Lo dice come se Takahiro potesse rifiutare, come se Mattsun non gli stesse sbandierando davanti ciò che vuole da inizio serata, ciò che vuole da una vita.
Takahiro si raddrizza, solleva gli occhi verso le labbra di Mattsun e le fissa per un attimo. Poi non sa bene come procedere. Come inclinare il capo. Quando chiudere gli occhi. E all’improvviso un semplice bacio si trasforma in un ostacolo intramontabile.
«Puoi dire no» gli dice Mattsun.
«Non voglio dire no.»
«Oh.» È un breve sospiro, quasi di sollievo. «In tal caso, forse posso aiutare.»
«Davvero?» dice Takahiro, ingoiando il nodo che ha in gola. «Sentiamo, come mi aiuteresti?»
«Molto semplice: il bacio te lo do io. Guarda,» dice Mattsun, afferrandogli le guance tra le mani «ti faccio vedere.» E poi attira i loro visi più vicini, così vicini, troppo vicini. Tra le loro labbra c’è un centimetro, un soffio di distanza, e poi nient’altro.
Solo pelle umida e morbida.
Il loro primo bacio non è come Takahiro se l’è immaginato. Non è un susseguirsi di fuochi d’artificio, di tremori così intensi da causargli un orgasmo. È solo… piacevole. Un contatto gentile. Dita che scendono dalle sue guance e si spostano sul suo collo, giù per il suo petto, lasciandosi dietro un sentiero accaldato dall’aspettativa. Labbra che si posano sulle sue, bagnate di saliva e nicotina. Un leggero sospiro, e poi le loro bocche sono schiuse e le loro lingue si sfiorano senza fretta, senza ansia, guidate solo dalla voglia di esplorarsi l’un l’altra.
Ed è tutto così facile.
Il corpo di Takahiro si muove da solo, guidato da piccoli tentativi di piacere. Le sue mani risalgono sulle spalle di Mattsun, si insinuano tra i suoi riccioli scuri. Sono soffici sotto i suoi polpastrelli; gli fanno venire voglia di tirarli. Solo un po’. Il giusto necessario perché Mattsun spinga la testa all’indietro ed esponga la gola con un gemito sommesso, presto soffocato da nuovi baci.
Sono affamati—i baci, sì, ma anche loro due. Con ogni sfioramento tentano di cancellare l’inutile distanza che li separa, meri millimetri di abiti e aria fino a quel momento passati inosservati. Ma è impossibile non notarli quando le mani di Mattsun si aggrappano alla sua vita, si spingono nella sua carne, e si lasciano dietro l’impronta accaldata di palmi sudati. Smaniosi. Pronti a esplorare.
A esplorare Takahiro.
Sembra un sogno, ma non lo è. Non può esserlo. Mattsun è troppo bollente contro di lui, troppo insistente con la sua presa, troppo dolce mentre rovescia la testa all’indietro, aprendo la bocca come un uccellino che aspetta la sua cena. E aspetta. E aspetta. E aspetta, finché la saliva non si raccoglie sulla sua lingua e straborda sul suo mento, e Takahiro si sporge per leccarla via.
«Okay, wow» dice, e si sente morire perché dovrebbe zittirsi, adesso, subito, ora, ma non riesce più a fermarsi; le parole continuano a scivolargli fuori dalla gola agitata. «Cioè, voglio dire. I tuoi baci—niente male.»
Mattsun ha il mento bagnato, le labbra rosse, il naso arricciato da una risata. «Che vuoi che ti dica? È stato un piacere.»
«Sì, beh…»
«Rifacciamo?»
Takahiro è di nuovo su Mattsun, a cavalcioni sulle sue cosce, il petto premuto contro il suo. Labbra contro labbra, riprendono come se non si fossero mai fermati, e addio ai primi baci incerti. No, ora Takahiro è intenzionato a prendersi tutto ciò che può, sia con la bocca che con le mani.
Con rapidità afferra la maglia di Mattsun, la solleva fino alle sue clavicole, e questa volta non indugia. I suoi palmi sono subito su Mattsun, aperti e sudati e curiosi di assaggiare le curve morbide del suo petto, gli spigoli sporgenti dei piercing, la pelle liscia sulle sue coste.
Mattsun rabbrividisce in una risata senza fiato. «Non farmi il solletico.»
«Se no?»
Gli occhi scuri di Mattsun brillano di malizia.
Un attimo dopo Takahiro si contorce dalle risate, massacrato dalle dita di Mattsun che gli pizzicano i fianchi, la conca delle ascelle, la pelle delicata dietro l’orecchio.
«Fermo, fermo!» dice Takahiro con difficoltà. Aggrappandosi ai suoi polsi lo separa da sé, gli alza le mani sopra la testa. Ma non lo trattiene. È Mattsun che resta in attesa, con le braccia sollevate e un sorriso invitante sulle labbra.
Sembra dirgli: e ora?
Con il respiro corto, Takahiro gli sfila la maglia e la lascia cadere a terra. Poi si sporge indietro con la schiena per regalarsi un’occhiata.
Il ventre di Mattsun si solleva e si rilassa in movimenti brevi, rapidi, guidati dalla foga del suo respiro. Ma i muscoli del suo petto, snelli come quelli di un ballerino, restano quasi immobili, tesi verso l’alto dai fasci di tendini che corniciano gli incavi delle sue ascelle. Anche loro sono esposte, ora, e mettono in mostra peli fitti, corti, scuri come la manciata di nei sparsi sulla sua pelle.
Takahiro vorrebbe affondarci in mezzo con le dita, ma non ci riesce. Tituba di nuovo.
«Fallo» dice Mattsun.
Takahiro solleva lo sguardo di scatto. «Non so di cosa parli.»
«Vuoi toccarmi» dice Mattsun. È ancora in posizione, ancora in attesa, ancora pronto per lui quando ripete: «Fallo».
È difficile rifiutare quando lo desidera così tanto.
Sollevando di nuovo le mani, Takahiro torna con i palmi aperti sul petto di Mattsun. Sfiora appena i suoi piercing, le punte erette dei suoi capezzoli, e poi risale verso l’alto, sulla sua gola, e il pomo d’Adamo di Mattsun si inceppa per un momento. È solo un attimo, ma quel singhiozzo fa crollare ogni suo dubbio.
Anche Mattsun vuole essere toccato. Anche Mattsun non resiste più.
Discendere sulle sue braccia diventa un po’ più facile. Palpare i suoi bicipiti gonfi, seguire lo scivolo dei suoi tendini, sfiorare i ciuffi scuri dei suoi peli—merda, lo sta facendo davvero. Sta affondando con le dita nelle sue ascelle. La pelle, lì, è calda e umida, resa ruvida dai riccioli corti; l’odore di sudore e deodorante è così intenso da fargli girare la testa.
«Makki» sospira Mattsun, lasciando crollare le braccia all’improvviso, avvolgendole attorno al bacino di Takahiro. «Mi stai uccidendo.»
Confuso, Takahiro abbassa lo sguardo e—oh. L’erezione di Mattsun è ancora nuda, rigida, schiacciata tra il ventre di Mattsun e i jeans di Takahiro. All’improvviso si chiede come sarebbe sentirla contro la propria pelle nuda. Contro il proprio stomaco. Tra le proprie cosce. Sulla propria lingua.
Il suo bacino singhiozza involontariamente in avanti e la presa di Mattsun si fa ancora più ferra.
«Togliti qualche vestito anche tu» dice lui, la voce roca e bassa.
È una richiesta sensata. Scontata, persino, contando la situazione in cui si ritrovano. Non è nemmeno nulla di insormontabile. Takahiro deve solo togliersi i vestiti, proprio come quand’è in palestra. Ma spogliarsi davanti a Mattsun non è come spogliarsi nello spogliatoio. Lì è tutto clinico: togli, cambia, rimetti. Qui, davanti a qualcuno che lo desidera, anche solo sfilarsi la maglia è… diverso.
Ora ci sono occhi che lo fissano con intenzione. Mani che lo sfiorano assetate. Palmi bollenti capaci di lasciarsi dietro impronte indelebili, che eppure scompaiono un attimo dopo. Takahiro lo sente su di sé, un accumularsi di tocchi come escoriazioni che lo spingono a supplicare di essere tormentato ancora e ancora e ancora da dita, occhi e labbra.
E, wow. Takahiro non si è mai sentito così conscio del suo corpo. Tutto d’un tratto avverte ogni lentiggine sulla pelle, ogni fascio di muscoli, ogni terminazione nervosa, e li sente finalmente propri. Legati al proprio piacere, a cui risponde il piacere di Mattsun.
Non appena la sua maglia crolla a terra, Mattsun risale sul suo torso, gli sfiora le cicatrici sbiadite sotto i pettorali, si allunga con le dita verso i peli sparsi sul suo petto. Sono sottili, resi quasi invisibili dal loro pallore rosato, ma Takahiro ha ancora speranze che, prima o poi, si facciano più folti.
«È il tuo colore naturale?» dice Mattsun, lasciando scivolare lo sguardo verso i suoi capelli. «Pensavo fosse una tinta.»
«No, è il mio colore. Guarda.»
Non sa bene dove ne trovi il coraggio, ma l’importante è averlo trovato. Così si solleva sulle ginocchia, sbottona i pantaloni e li abbassa insieme ai boxer per mettere in mostra il suo ventre, lì dove si raccoglie il suo regalo preferito del testosterone: una macchia di peli castano-rosati, fitti e corti. All’altezza del suo ombelico sono più chiari, di colore simile ai suoi capelli, ma si fanno sempre più scuri mentre discendono verso il basso, in quel sentiero irregolare che si allarga sul suo pube e si insinua tra le sue cosce. Lì i suoi peli sono quasi castani, anche se questo Mattsun non lo può sapere. Non ancora, almeno.
Al solo pensiero, una scossa di brividi gli scalda la schiena.
Nascosto dietro la barriera del suo schermo, protetto dalla caverna delle sue coperte, Takahiro non ha mai conosciuto l’eccitazione dell’essere guardato, studiato, ammirato tra fremiti e aspettativa; e ora che Mattsun lo guarda, lo studia e lo ammira, incapace di tenere lo sguardo lontano dai suoi boxer abbassati, Takahiro si sente come se avesse appena ritrovato l’ossigeno.
Non può più farne a meno, ma ogni respiro gli ricorda quanto a lungo è rimasto soffocato. Quanto sarebbe doloroso ritornare nella sua bolla asfissiante. E la cosa lo spaventa.
«Posso?» chiede Mattsun, tracciando con le dita l’elastico dei suoi boxer, la linea rossa che si è impressa sulla sua pelle.
Di scatto, Takahiro si irrigidisce. No!, vorrebbe urlare, a Mattsun e a sé stesso. A Mattsun perché deve smetterla di fermarsi, di dargli una scelta, di lasciargli il tempo di pensare; e a sé stesso perché non è giusto, non è giusto, non è giusto. Stava andando tutto bene, e poi eccola, una semplice domanda, e la mente di Takahiro minaccia di tornare sui suoi sentieri d’ansia, verso mete conosciute che non desiderano altro se non seppellire la sua eccitazione sotto i tremori freddi del panico.
Eppure, si sforza di pensare, se Takahiro è ora in ginocchio su Mattsun, il corpo mezzo nudo premuto contro il suo, è perché Mattsun gli ha regalato il tempo di abituarsi alla sua presenza, alla sua vicinanza, al suo sguardo. Gli ha dato il tempo di prendere una decisione, senza lasciarsi guidare dalla paura. E ora gli offre altro tempo, regalandogli in cambio lente carezze.
Le sue mani si fermano sui fianchi di Takahiro; i suoi pollici disegnano cerchi delicati contro la sua pelle nuda. Per il resto Mattsun è immobile, con il mento sollevato verso l’alto e gli occhi fissi su quelli di Takahiro. Posso?, sembra chiedere di nuovo. Ma non è insistente. Semplicemente resta in attesa, congelato come un video messo in pausa.
Takahiro prende un respiro profondo e clicca di nuovo play.
«Puoi cosa?» chiede.
«Farti venire con la bocca.»
«Okay» dice Takahiro di getto, senza fiato per la proposta, per l’eccitazione, per i mille pensieri che all’improvviso si spengono insieme ai suoi neuroni. Riesce solo a dire: «Okay. Okay, perché no».
«Perché no?» ripete Mattsun, ridendo. «Non hai altro da dirmi?»
«Sta’ zitto, non so come altro risponderti. Ma poi come cazzo parli.» Posso farti venire con la bocca? «Chi è che lo chiede così?»
Mattsun arriccia le labbra in un sorrisetto. «Io.»
Già, lui. Lui che fa proposte indecenti come se fosse la cosa più facile del mondo, come se non ci fosse nulla di tanto complicato nello spogliarsi e lasciarsi toccare da un semi-sconosciuto. Come se, alla fine, quello fosse solo un po’ di sano divertimento.
E perché non può esserlo?
Takahiro non sa rispondersi, perché un attimo dopo le dita di Mattsun scendono più in basso e strattonano i suoi jeans per abbassarli.
«Alzati un attimo» dice.
Facendo leva sulle spalle di Mattsun, Takahiro scende dalle sue cosce e si alza in piedi. Con pochi, rapidi movimenti si sfila ciò che resta dei suoi vestiti, scalcia via i boxer, e per poco non pesta la coda della bestia satanica.
Che a quanto pare è rimasta appollaiata vicino al divano.
Con gli occhi sgranati puntati su Takahiro.
«Senti, ma starà a fissarci tutta la notte?»
«Abituati» dice Mattsun, scrollando le spalle larghe. «C’è un motivo se si chiama Sentinella.»
«Nome assolutamente non inquietante, mi raccomando…»
Con un sorriso, Mattsun lo afferra per il polso e lo attira di nuovo a sé.
«Dammi cinque minuti» dice, e si aggrappa con le dita alla carne di Takahiro. Con una leggera pressione lo guida sul divano, si preme le sue ginocchia contro i fianchi. «Cinque minuti e non ci farai più caso. Promesso.»
Alla fine cinque minuti non bastano, ma sette sono più che abbastanza. Sette minuti di Mattsun tra le gambe di Takahiro, il naso sepolto nel suo pube, la lingua calda contro il suo clitoride. E sembra impossibile, ma non lo è. Takahiro è davvero in ginocchio su quel divano rosso. Ha davvero una mano tra i riccioli scuri di Mattsun. Sta davvero ansimando mentre Mattsun lo esplora con la lingua, schiudendo le sue pieghe per raggiungere l’eccitazione che lo fa sentire umido e bollente, sull’orlo del precipizio.
E finalmente Takahiro non ha più tempo di pensare. Non mentre Mattsun emette bassi sospiri soddisfatti, lunghi mhmm vibranti che gli riverberano per tutto lo stomaco. Non mentre la realtà di quella scena lo colpisce e lo lascia senza fiato.
Takahiro è con un altro uomo. Si sta lasciando toccare, come ha visto altre persone toccarsi in infiniti video. Come fino ad ora si è toccato da solo. È una sensazione diversa—infinitamente diversa. Mattsun non conosce il suo corpo quanto lo conosce Takahiro; non sa dove gli piace essere accarezzato, quali punti lo lasciano indifferente, quali invece lo fanno tremare di piacere. Ma a differenza di quando è da solo, questa volta non sente solo il bisogno allucinante di avere un orgasmo, una soddisfazione, una pausa da tutto il resto. No, ora Takahiro non vuole nulla se non godersi ogni momento, mentre Mattsun lo divora come se potesse continuare per tutta la serata, per il semplice gusto di trovare la terminazione perfetta per far sussultare Takahiro più e più e più volte.
La trova per caso, Mattsun, nel tentativo di ripulire Takahiro da tutti i suoi umori. Mentre risale tra le sue pieghe, mentre avvolge le labbra intorno alla sua erezione, Takahiro l’avverte, all’improvviso, una breve suzione. E poi un’altra, e un’altra ancora, a distanza sempre più ravvicinata, finché Takahiro non si sente diventare sensibile, tanto sensibile, troppo sensibile, e allora spinge la testa di Mattsun lontano da sé.
Lui mugola contrariato.
«Non ho ancora finito» dice Mattsun tra un ansito e l’altro, aggrappandosi ai fianchi di Takahiro con le unghie, cercando di trattenerlo vicino a sé. «E non hai finito nemmeno tu.»
Takahiro si passa una mano tremante sul viso accaldato. «Aspetta, ho bisogno—ho bisogno—» La voce gli si spezza. Non sa come dirglielo, non sa come spiegarglielo. Sarebbe molto più facile se solo potesse—
«Fammi vedere» mormora Mattsun. E poi rilassa il capo, schiude la bocca e sporge la lingua, pronto a lasciarsi guidare dove Takahiro desidera.
E forse Takahiro dovrebbe sentirsi in colpa. È la sua prima volta con Mattsun, e senza rendersene conto sta già usando la sua bocca per inseguire il proprio piacere. Il proprio e basta. Ma che altro può fare quando Mattsun lo guarda così, con gli occhi socchiusi sollevati verso l’altro, fissi sul suo viso? Anche mentre Takahiro si spinge contro di lui, ruotando il bacino verso la sua bocca, strusciandosi ripetutamente sulla parte piana della sua lingua, è Mattsun che lo incita a continuare. È Mattsun che segue i suoi movimenti, che geme contro la sua pelle, che si spinge coi polpastrelli contro la carne dura delle cosce di Takahiro, sui muscoli sempre più tesi da un orgasmo che è lì, lo sente, così vicino, così vicino, cazzo, così vicino—
Finisce tutto in un attimo accecante, così intenso da rovesciargli il capo all’indietro.
Poi resta solo la discesa.
Quella è la parte che Takahiro odia di più. Va sempre così, dopo un orgasmo: un attimo prima il piacere gli spezza il fiato, e un attimo dopo lo fa sentire disgustoso e repellente. È come se la sua mente si sentisse tradita dal suo corpo. Come se volesse accusarlo di essere sporco.
Ma a Mattsun non dispiace la sua sporcizia. Anzi. Con mani curiose continua a massaggiare le cosce di Takahiro, risalendo sulla sua pelle bagnata, spingendosi tra le sue labbra gonfie. Le schiude appena per guardare ciò che fino ad ora ha solo assaggiato, e poi scivola con due dita ai lati del suo clitoride ancora gonfio.
«Allora?» chiede, muovendo il polso su e giù, masturbandolo lentamente. «Niente male?»
È così niente male che Takahiro non vorrebbe più smettere, anche se la sua pelle comincia a urlare per l’ipersensibilità, anche se, contro la propria volontà, si ritrova a supplicare: «Fermo—fermo un attimo».
Mattsun sposta le mani verso i suoi fianchi e si appoggia con il mento appiccicoso contro il suo ventre, strusciandosi con la guancia contro di lui. Non sembra intenzionato a lasciarlo andare, a smettere di esplorarlo; gli sta solo dando un attimo di tregua per riprendere fiato.
«Mi hai quasi ammazzato» dice Takahiro, la voce ancora ansante.
Mattsun sorride, le labbra rosse e bagnate. «È stato un vero piacere.»
Per un attimo, Takahiro resta a studiarlo. C’è qualcosa nell’espressione di Mattsun, nelle sue guance accaldate, nei suoi riccioli spettinati, nel modo in cui continua a cercare contatto… qualcosa che lo spinge a chiedersi se forse, forse anche Mattsun non si sia goduto il suo orgasmo.
Si domanda se sia davvero possibile. Poi ripensa a tutte le sue notti insonni passate a crogiolarsi negli orgasmi di Mattsun, del ragazzo in lingerie, della Domme con il maxi-dildo, e si dice che sì, forse è davvero possibile.
«A cosa pensi?» gli chiede Mattsun. I suoi occhi sono fissi su Takahiro, il castano delle sue iridi intenso quanto il nero mozzafiato delle sue sopracciglia, dei suoi ricci scuri e lucidi ora intrecciati in una matassa indistricabile.
Takahiro ci passa in mezzo le dita, cercando invano di domarli. «Nulla» dice distratto. «Solo, a ciò che è appena successo.»
«A ciò che potrebbe succedere di nuovo?»
«Oh» mormora Takahiro, senza fiato e fin troppo conscio delle sue ginocchia schiuse, dell’odore umido che gli bagna le cosce, del respiro caldo di Mattsun sulla pelle, e della sua bocca così vicina, troppo vicina, già pronta a soddisfarli entrambi ancora una volta. Ed è profondamente ingiusto che Takahiro non possa dirgli sì, ora, subito perché il suo stupido corpo non c’è abituato e sta già rischiando l’implosione dopo un semplice orgasmo. Anche se poi tanto semplice non è stato. Takahiro si sente ancora formicolare lì dove Mattsun l’ha toccato, assaggiato, forse persino divorato, e muore dalla voglia di sapere cos’altro può provare ora che se n’è dato il permesso. «Magari tra dieci minuti? No, aspetta, facciamo cinque.»
Mattsun ride. Ride di gusto, crollando con il capo in avanti, schiacciandosi con il naso contro il ventre di Takahiro. Poi gli morde dell’ombelico esposto, e Takahiro si gode la sensazione di non volersi ritrarre nella propria pelle e rimpicciolirsi fino a svenire.
Giusto l’anno prima, la sola vista del suo ombelico l’avrebbe spinto giù per una spirale d’odio distruttiva, avviluppato da quelle voci nella sua testa capaci di listargli ogni difetto sul suo corpo. E buona fortuna a capirne il motivo. Takahiro ha passato un’enormità di ore a studiare la forma del suo ombelico, a spingerlo dentro lo stomaco con un dito, a tirarne la pelle fino a stirarlo, ma una spiegazione ancora non l’ha trovata. Forse è una di quelle strane convinzioni che gli hanno inculcato da piccolo, quando ogni complimento e ogni offesa gli ricordavano quanto grazioso e delicato fosse il suo corpo. E anche il suo ombelico. Una cicatrice inutile sulla sua pancia che eppure è capace di innestare quel domino infinito di insicurezze.
Gli succede ancora, a volte, ma ora Takahiro ha imparato ad accettarlo: quell’ombelico e le sensazioni illogiche che gli fa provare. E anche quella goccia di femminilità che non lo lascerà mai del tutto, di certo non agli occhi degli estranei. E chissene frega. La verità è che non gli dispiace più ora che si sente così al sicuro nella sua pelle, ora che le sue forme lo fanno sentire a casa; ora che il suo corpo è così profondamente suo da poterlo esplorare come desidera, non come desiderano gli altri. E forse su quest’ultimo punto ci sta ancora lavorando, ma che ci deve fare? Può solo vivere una giornata per volta, raccogliendo piccole gocce di coraggio dove e come può.
Ad esempio come sta facendo ora, nudo in grembo a Mattsun, lasciandosi esplorare da dita e occhi curiosi di scoprire dove gli piace essere accarezzato e solleticato e pizzicato.
«Hai mai pensato di farti un piercing?» dice Mattsun, aprendo il palmo sul suo petto, trascinandosi dietro una pesante carezza che gli stuzzica i capezzoli. «Ti starebbe da urlo.»
«Ci ho pensato, ma…» Takahiro stringe nelle spalle. Dalla sua parte ha solo la solita scusa, quel non penso mi starebbe bene, facilmente traducibile in: non ne ho mai avuto il coraggio perché sono incapace di fare una scelta senza dubitarla settantatré volte di seguito a intervalli regolari, ed è tutta colpa dei castelli immaginari che mi piace costruire morbosamente sulle sabbie mobili della mia ansia. Ma dirlo ad alta voce sarebbe troppo imbarazzante, così preferisce tagliare corto. «Dove pensi che mi starebbe bene?»
Senza dubitare, come se la risposta fosse ovvia, Mattsun tira fuori la lingua e gli lecca la pelle esposta dell’ombelico. «Qui» dice, serrando i denti attorno a lui, dandogli un piccolo morso giocoso e facendolo tremare. Poi lo lascia andare e si spinge più in basso con il viso, accarezzandogli il pube con il naso, spingendosi con la punta contro la sua erezione bagnata. «O anche qui.»
Takahiro trema ancora, questa volta per la pelle d’oca che lo assale all’immagine di un ago che gli fora il clitoride.
«No?» dice Mattsun, l’eco di un sorriso nella voce. «I miei piercing ti piacciono, però.»
«Non saprei» dice Takahiro, anche se lo sa, lo sa benissimo. Non c’è un piercing di Mattsun che non desideri ammirare per infinite ore, cosa che tra l’altro fa di continuo durante le sue serate solitarie. Ma, merda, ora Mattsun ce l’ha davanti. Ora può ammirarlo dal vivo. «Forse dovresti farmeli vedere meglio.»
Mattsun inclina il capo, pensieroso. «Vuoi solo guardarmi?» chiede.
No, Takahiro molto di più, forse troppo di più; vuole lasciarsi cadere a capofitto nelle sue fantasie, e poi infilarsi nella testa di Mattsun per scoprire anche le sue.
Non sa bene come dirlo, però.
Così tenta con un banale: «No, vorrei…» e si interrompe subito, mordendosi la lingua, quando avverte la titubanza nella propria voce, nella scelta delle sue parole, in quel vorrei che resta sempre astratto, distante, irraggiungibile. Ma questa volta non lo è. Perché Mattsun è lì davanti, cazzo, a pochi centimetri dalle sue dita, in attesa di un suo segnale.
«Voglio toccarti» dice infine. «Io… non ho molta esperienza, ma voglio provarci. A toccarti.»
«Lo so» dice Mattsun, lasciandosi crollare sui cuscini a fiori, la testa reclinata all’indietro e gli occhi fissi sul volto di Takahiro. Si passa una mano sul viso, nascondendo un sorriso dietro al palmo. «Lo vedo che lo vuoi. È da quando siamo in macchina che mi fissi così.»
Bene. Saranno passate ormai, quante? Un’ora e mezza, due ore? Due ore di Takahiro che, con tutta la sua goffaggine, non è riuscito a nascondere nemmeno uno dei pensieri vietati ai minori che gli sono passati per la testa. E, merda. La parte peggiore è che non riesce nemmeno a sentirsi imbarazzato; l’espressione di Mattsun glielo impedisce. Il sorriso sulle sue labbra è troppo alticcio, il rossore sulle guance è troppo pronunciato.
Mattsun si sente lusingato.
Lusingato! Come se lo sguardo di Takahiro fosse un flusso continuo di complimenti diretti e sinceri. E lo è, alla fine. Se solo Takahiro sapesse dare voce ai suoi desideri, se solo sapesse spiegarsi come vorrebbe, ora glielo confermerebbe a parole. Invece non gli resta che allungare le mani sudate e poggiarle sul petto nudo di Mattsun.
Con le dita affonda nei suoi pettorali, ora morbidi e rilassati, al contrario dei suoi capezzoli rigidi e leggermente arrossati. Takahiro vorrebbe leccarli. Lo vorrebbe davvero, ma non quanto vuole guardare le reazioni di Mattsun, le sue labbra che si schiudono, la sua schiena che si arcua, il suo corpo che chiede di essere toccato ancora, più approfonditamente, fino a contorcersi.
Allora Takahiro scende più in basso con le mani, sul suo sterno magro, sul suo ventre agitato, sul sentiero scuro appena sotto il suo ombelico. Lì si interrompe un attimo, arricciando le dita attorno alla sua erezione. È bollente, la pelle liscia tesa su carne dura e pulsante, con la punta resa umida dalle sue attenzioni. Le sue. Di Takahiro.
Senza accorgersene, si ritrova a sospirare mentre con dita curiose scende ancora più in basso e raccoglie nel palmo i testicoli di Mattsun. Li massaggia piano, studiando il respiro di Mattsun per controllare quanto possa stringerli, quanto possa tirarli, quanto possa pizzicarli, e poi sorride quando lo sente tremare e ansimare.
«Vacci piano, Makki» dice Mattsun a occhi socchiusi.
«Ti ho fatto male?»
«No, ma sono a tanto così da venire.»
«Oh.»
Rallentando le sue carezze, Takahiro lascia scivolare lo sguardo dal viso di Mattsun al suo petto, al suo stomaco, all’erezione che stringe ancora tra le dita. I suoi studi arrapati gli hanno insegnato che ci sono dei segni per capire quando qualcuno è ormai vicino all’orgasmo, anche se ora quei segni non riesce a trovarli. Il fiato di Mattsun è agitato, certo, e il suo ventre e le sue cosce sono tese e tremanti, ma quante volte Takahiro si è trovato perso nel piacere delle proprie dita senza mai spingersi verso un orgasmo? Magari funziona così anche per Mattsun; o magari i segni del suo orgasmo imminente sono troppo nascosti per l’occhio inesperto di Takahiro. O magari l’articolo che ha letto è una cavolata colossale, e Takahiro rischia di perdersi le reazioni di Mattsun nel lasciarsi distrarre da tutti quei forse e magari.
Il che sarebbe tragico.
«Stai per venire?» chiede Takahiro, per conferma.
Mattsun risponde con un basso: «Mh-mh», un suono nasale e sospirato, scivolato fuori da labbra soffici e socchiuse, e così invitanti che Takahiro non riesce a trattenersi. Un secondo dopo le sta sfiorando con le dita, il polpastrello del pollice premuto contro il suo labbro, poi contro la punta della sua lingua.
«Puoi venire, se vuoi» dice Takahiro. «Per me non è un problema. Davvero. Semmai è il completo opposto.»
«Okay, ma…» Con una risata sospirata, Mattsun scuote la testa e poggia le mani sui fianchi di Takahiro. «Almeno lasciami svestire. Non vorrei sporcare i miei boxer di Natale, sai com’è.»
«Sarebbe proprio una catastrofe.»
«Vero?» dice Mattsun, ghignando. «Ecco perché dovresti alzarti. Così, guarda» dice, e fa cenno a Takahiro di sollevarsi sulle ginocchia. Lo accompagna con le mani senza mai sciogliere la presa sui suoi fianchi, almeno finché Takahiro non si trova sdraiato sui cuscini a fiori, intenzionato a godersi l’esatto momento in cui avrà Mattsun in piedi, nudo davanti a sé.
Ma prima deve sghignazzare un po’, perché quei boxer sono davvero ridicoli.
«Che devo fare con te?» dice, sciogliendosi in una risata.
Mattsun lascia crollare i pantaloni e i boxer a terra, poi si arrampica di nuovo sul divano e si inginocchia tra le gambe di Takahiro. «Io qualche suggerimento ce l’avrei.»
«Ah, sì?» dice Takahiro. «Spara.»
Avrebbe voluto dirlo con nonchalance, ma non ci riesce. La sua voce all’improvviso è roca e spezzata e fuori controllo perché, proprio in quel momento, Takahiro si trova costretto ad ammettere che nessuna delle sue fantasie l’ha mai preparato per questo: un corpo caldo sopra di sé; mani gentili che cercano le sue guance; una bocca morbida vicina—troppo vicina—così vicina alla propria da soffocare le sue parole con un bacio. E che bacio. Soffice come una promessa, giocoso come l’atmosfera che Mattsun ha creato per lui. No, sbagliato: come l’atmosfera che hanno creato insieme, tra carezze e risate e sospiri, su quel divano rosso troppo piccolo per entrambi. Non che sia un problema. La strettezza del divano li obbliga a stare l’uno sull’altro, petto contro petto, mentre le loro labbra si cercano in morsi delicati e baci bagnati, e per Takahiro non è abbastanza. Non può essere abbastanza. Non mentre Mattsun si struscia contro la sua coscia come un cucciolo in calore, spingendo Takahiro ad allungare una mano per avvolgerlo di nuovo con le proprie dita.
Mattsun sospira contro la sua bocca e crolla con la fronte contro la sua. «Aspetta un attimo» dice, e si aggrappa al suo polso per fermarlo. «Lasciami solo…» Ruotando il bacino, Mattsun si gira tra le gambe di Takahiro e si adagia con la schiena contro il suo petto. «Così va meglio.»
«Meglio?» ripete Takahiro, incredulo. «Meglio è decisamente la parola sbagliata.»
Mattsun si appoggia con la testa alla sua spalla, sporgendo il viso per baciargli la gola, la curva della mascella. «Che parola useresti?»
Takahiro non deve nemmeno pensarci prima di dire: «Pornografico?». Ed è inutile che Mattsun si metta a ridere. Non c’è altra parola che possa descrivere quella visuale: Mattsun stravaccato sul corpo di Takahiro, l’erezione sollevata contro il ventre teso, una mano rilassata tra le cosce schiuse.
Dalla sua postazione, Takahiro può vedere tutto—tutto—come una videocamera troppo vicina, e soprattutto può toccare tutto—tutto!—come se Mattsun avesse quattro mani. Quattro mani che si muovono a sé stanti, sui suoi capezzoli, sui suoi testicoli, sulla sua gola e sulla sua vita, ogni mano con mete diverse ma con lo stesso obiettivo: strappare a Mattsun un altro sospiro. E poi un altro. E un altro ancora, quest’ultimo così vicino all’orecchio di Takahiro da fargli girare la testa e spingere involontariamente i fianchi in avanti.
«Fallo di nuovo» dice Mattsun aggrappandosi al fianco di Takahiro. «Strusciati su di me.»
Takahiro stringe le dita sul petto di Mattsun. La scusa è che gli serve un appoggio per potersi muovere meglio in quella posizione scomoda che richiede tutto l’aiuto dei suoi addominali, ma in realtà ha solo bisogno di toccare Mattsun mentre con i fianchi si spinge contro il suo basso-schiena, ripetutamente, e gli ansima all’orecchio perché, cazzo, la frizione che avverte è minima, ma sulla sua pelle sensibile risulta intensa come una carezza.
«Ti piace?» dice Mattsun.
La sua voce è calda dai tremiti, così calda da spingere Takahiro ad abbandonare ogni scusa. Senza rispondere, passa le mani sulla gola di Mattsun e la sente incespicare di piacere, prima, e di sorpresa, poi, quando Takahiro si sposta più in basso, verso il suo capezzolo sinistro. Lo tormenta con le dita, pizzicandolo e tirandolo e appiattendolo, finché Mattsun non si contorce, a ogni tremito spinge il bacino all’indietro. Solo allora Takahiro si spinge più in basso, tra i peli corti sotto il suo ombelico, e sfiora con le dita la sua erezione. Lì i piercing di Mattsun sono lucidi contro la pelle umida. Gli fanno venire l’acquolina in bocca.
«Fammi vedere» mormora Takahiro, le labbra contro la guancia di Mattsun.
Lui gira il viso, gli bacia l’angolo della bocca. «Cosa vuoi vedere?»
«Quando ti sporchi lo stomaco.»
«Cazzo» dice Mattsun sottovoce, lasciandosi riscuotere da un tremito. Poi non perde tempo: si afferra tra le dita, stringe la presa e comincia a muovere il polso. «Vedi tutto?»
Takahiro annuisce, senza parole, immerso nella scena. Perché i video di Mattsun non gli hanno mai fatto vedere questa inquadratura—quello che vede Mattsun quando tocca sé stesso. Con la tensione al ventre che si fa sempre più intensa, i muscoli che si irrigidiscono, i fianchi che sobbalzano verso l’alto per spingersi contro la sua stessa mano. E sobbalzano di nuovo, un attimo dopo, quando le dita di Takahiro si aggiungono al mix, andando a strusciarsi contro il suo pube rasato da poco. I peli corti gli pizzicano il palmo quando Takahiro apre la mano e poi lo graffiano quando Mattsun sussulta e con un piede scivola giù dal divano.
«Più in basso» ansima Mattsun, invitando Takahiro a scendere verso la sua erezione, contro la sua base. Fa appena in tempo a toccarla che subito Mattsun lo richiama.
«No, più in basso» dice, e gli afferra il polso, guida la sua mano sui propri testicoli e gli mostra come stringerli, come massaggiarli, come allungare le dita per raggiungere la pelle sensibile appena più sotto.
Quando Takahiro si struscia con i polpastrelli sul suo perineo, Mattsun ribalta la testa all’indietro e si sporca il ventre in tre fiotti caldi.
È bizzarra, la velocità con cui succede. Un attimo prima Mattsun è teso dal piacere, e all’improvviso ecco che la tensione lo abbandona e il suo corpo si scioglie contro il petto di Takahiro, pigro e languido, mosso solo dai respiri pesanti che gli agitano lo stomaco unto per l’orgasmo.
Anche questo non compare mai nei video. C’è un leggero tremore nel fiato di Mattsun che Takahiro avverte solo perché la bocca di Mattsun è sulla propria gola. E nell’aria ci sono così tanti odori – fumo, sudore e sesso – tutti così intensi da riempire la stanza. E, incrociando le dita, anche la memoria di Takahiro. Così potrà ricrearli di nuovo in camera sua, nella solitudine delle sue fantasie.
L’idea non è troppo male. Dopotutto, gli piacciono, le sue fantasie. Gli piacciono anche quando restano fantasie, quando gli ricordano che la realtà è fatta di risate, boxer natalizi e pelle troppo sensibile.
«Quest’angolazione non è per niente male, sai» dice Takahiro.
Mattsun emette un basso sospiro d’assenso. «La prossima volta ti faccio vedere come usare la telecamera.»
Takahiro si irrigidisce.
«La prossima volta?» La prossima volta implica che succederà di nuovo. Che si potranno incontrare ancora. Che Mattsun scoperchierà qualche altro kink che Takahiro non sa di avere, anche se questa sera ne ha già tastati fin troppi. Ma soprattutto: «Vuoi che ti registri io?».
Sollevando il capo, Mattsun gli mostra un sorriso incerto. «Ti va?»
Takahiro apre la bocca, la richiude. Cerca il pulsante di riavvio nel suo cervello, cosa che evidentemente non trova perché tutto ciò che riesce a dire è: «Ti farò sapere».
«Vuoi farmi aspettare, eh?» dice Mattsun, ridendo. «Bravo. Tienimi sulle spine.»
Mattsun si rimette a sedere e si sporge a terra per raccogliere la propria maglia. Se la passa sul ventre sporco, poi lancia un’occhiata a Takahiro. «Vado a prenderti un asciugamano?»
«Grazie» dice Takahiro, anche se non è sicuro che un asciugamano basti. Si sente tutto appiccicoso per colpa degli orgasmi, della saliva di Mattsun, e dell’ansia che l’ha fatto sudare più del necessario, e forse è il caso di darsi una ripulita. «Ti dispiace se mi faccio una doccia?»
Mattsun scuote la testa di riccioli spettinati, riccioli che Takahiro ha spettinato. «Sai già dov’è il bagno» dice con un cenno del mento. «Poi ti porto un cambio.»
Takahiro lancia un’occhiata ai suoi abiti sparsi per terra e decide che li metterà a posto più tardi, quando ne avrà addosso altri puliti.
«Grazie, Mattsun» dice distrattamente.
«Issei» lo corregge lui. «Issei Matsukawa.»
«Okay, James Bond» dice Takahiro, ruotando gli occhi al cielo. Ha avuto la sua lingua in bocca e tra le cosce, eppure Mattsun si è presentato solo adesso. Tipico. Anche se a pensarci bene il nome Issei non è niente male. Una persona tranquilla. Gli dona. È qualcosa nel modo in cui Mattsun si comporta, nella fluidità con cui parla, si apre, si espone… e non solo su internet. «Aspetta, non è un po’ irresponsabile dare in giro nome e cognome?»
Mattsun ci pensa su, grattandosi il mento. «In effetti hai ragione» dice, sollevando le sopracciglia folte. «Facciamo così: dammi il tuo numero, così se li sveli in giro so come trovarti.»
Takahiro sbatte lento le palpebre una, due volte. Poi è costretto a scoppiare a ridere.
È nudo nel salotto di uno sconosciuto che è solito stalkerare su internet, dopo aver finalmente scoperto cosa significa condividere un orgasmo con un’altra persona, e ride. Come se fosse semplice, spontaneo.
Il nodo d’ansia nel suo stomaco è quasi trascurabile.
«Affare fatto» dice a Mattsun, con un sorriso. «Ma prima la doccia.»
*
Takahiro non sente i suoi passi rapidi. Non sente il fruscio dei suoi abiti. Non sente i singhiozzi trattenuti nella sua voce. Solo, all’improvviso si sveglia e lo sa.
Oikawa se n’è andato. Ha portato via la sua valigia rossa troppo piena, il suo beauty-case disordinato, la sua sciarpa sull’appendiabiti, e si è lasciato dietro il dolore gelido della sua assenza.
Takahiro la sente, ancora una volta. La sente proprio lì, in quel salotto pieno di desideri e confessioni e fantasie; in quel salotto in cui si è addormentato a notte tarda, con il corpo caldo di Mattsun al proprio fianco, pieno di speranze per il domani; in quel salotto che è stato anche di Oikawa, colorato della sua presenza, e che ora non lo è più.
Perché Oikawa se n’è andato.
Senza concedersi di salutare. Senza farsi aiutare. Senza lasciarsi vedere.
E questa volta è stato troppo facile distogliere lo sguardo.